Le sette parole di Cristo sulla croce attraverso l’arte
Le sette parole di Cristo attraverso sette crocifissioni. Parole e opere per entrare al dentro della passione di Cristo, con gli accadimenti, i simboli e i personaggi chiave di questi momenti di croce.
I . «Padre, perdona loro, poiché non sanno quello che fanno».
Le prime parole di Cristo sulla croce non sono per sè, bensì per il Padre e per coloro che «non sanno ciò che fanno». In questo, sta tutta la drammaticità di un accadimento: l’uomo che non riconosce il Dio sceso in terra e lo crocifigge.
Poi scopriremo che sarà la croce, in realtà, a portare salvezza, ma poi. Ora è tragedia.
Siamo ad Assisi, sul finire del Duecento quando Cimabue affresca sul transetto della Basilica di San Francesco questa concitata crocifissione. Separazioni e ferite lacerano la composizione di questo affresco. Gli angeli del padre, contrapposti agli uomini, uomini che tra loro sono marcatamente divisi in coloro che piangono e coloro che vogliono ciò che accade.
La cerniera che ancora una volta è chiamata a sanare, a guarire e unire queste lacerazioni è il corpo di Cristo, dimensionalmente più grande e lasciatosi andare come ‘biscione doloroso’. Una linea curva e conciliante in un mondo di linee nette e spezzate.
A questa drammaticità, contribuisce l’alterazione dei bianchi, relegando gli originari colori di questa crocifissione al passato. Ed è proprio lì, nel passato di ogni giorno, che la morte dovrebbe collocarsi.
San Francesco e il perdono
Un personaggio: Francesco. Egli, chino ai piedi della croce, la adora fino a baciarla. Dal «Padre» sussurrato o urlato di Cristo passiamo all’«altissimo onnipotente bon Signore» colui che solo può, come richiesto da Cristo, perdonare. Allora, scrive Francesco, «Lodato sii mio Signore, per quelli che perdonano in nome del tuo amore, e sopportano malattie e sofferenze».
La passione è ciò che unisce tutti in questo affresco ed è la sola strada stretta attraverso la quale passa il perdono.
II. «In verità, ti dico, oggi tu sarai con me in paradiso».
Passione è parola che ci accompagnerà e che ritroviamo manifesta anche nella splendida crocifissione del primo quarto del Cinquecento di Gaudenzio Ferrari nel Santuario della Madonna delle Grazie a Varallo.
Qui tra lo svolgersi ‘barocco’ dei sentimenti e tra i turbini di vesti e disperazione sorge un qualcosa di autentico. Certo, meraviglioso il corpo del Cristo, ma soffermiamoci sul volto. Pace, serenità, beatitudine. Non è il volto di un crocifisso, ma al contempo non è ancora il viso di un risorto.
Il pittore delinea qui i tratti di una promessa d’amore e di colui, l’amato, che a quella promessa s’affida e che, in quella promessa, muore.
In questa verità, Gesù, proferisce parole di salvezza: «Hodie mecum eris in paradiso».
Hodie è un oggi eterno, circolare, che è pronunciato ogni qual volta ci si mette in ascolto di parole di amore. È l’incipit di una promessa che continuamente si rinnova e si nutre del mecum, con me. La passione torna ad essere destino comune e in particolare lo è, in quel momento, per i due ladroni. Sono infatti le due loro figure a sintetizzare le due strade che si aprono agli uomini: non porgere l’orecchio alla Parola oppure farlo e vivere secum nella promessa d’amore.
Due vie che portano l’una alla disperazione, a un’esistenza nella quale il male è giogo e spinge verso terra, l’altra conduce alla speranza, che tramuta la croce in beatitudine (sull’esempio di Cristo), e che apre al futuro sarai e al paradiso.
Le sette parole di Cristo attraverso l’arte!
III. «Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre.
«Padre» abbiamo sentito nella prima delle sette parole di Cristo, «madre» e «figlio» sentiamo ora.
Sembra non esserci crocifissione senza questi due personaggi comprimari: Maria e Giovanni. I primi due a piangere Cristo, i due che forse comprendono più d’ogni altro la passione di quell’uomo appeso alla croce. L’una perché madre carnale e viene su questa tavola di Van Der Weyden raffigurata come donna avvolta in un abito sovrabbondante, che pare un enorme lenzuolo, quasi un sudario, da cui emergono il volto piangente e il corpo in procinto di abbandonarsi e cedere al dolore insostenibile della croce. A lei è rivolto il viso del figlio, al quale non riesce a dare risposta. Come può una madre guardare gli occhi chiusi d’un figlio?
L’altro personaggio è Giovanni, il «discepolo che Gesù amava», colui che già sapeva perché annunciatogli nell’ultima cena. In quest’opera, Giovanni a mani levate volge lo sguardo alla croce creando una relazione circolare tra i personaggi.
Eppure la vera relazione che viene qui a esplicitarsi è quella tra la Madonna e Giovanni, due figure che sono lì in funzione della croce, che fondano il loro rapporto sulla croce e scoprono di essere l’uno per l’altro madre e figlio: massima espressione dell’amore terreno.
In questo riconoscersi madri e figli ci si rivela avvolti delle stesse vesti di salvezza di Cristo, incorrotte, sopra le quali né lacrime né sangue possono posarsi.
IV. «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?»
Per comprendere al fondo queste parole e la scelta di quest’opera (la crocifissione del pittore tedesco Mattias Grünewald per l’altare di Issenheim) dobbiamo volgere gli occhi alla più piccola eppure potentissima figura umana qui raffigurata: la Maddalena. Una donna che nel suo dolore è quasi un tutt’uno con la terra, l’ovale sformato dalla contrizione, le mani intrecciate nella supplica ineffabile.
Mettiamoci nei suoi panni: sta assistendo alla visione di corpo teso e lacero, sul quale la corona di spine è la minima pena. Maddalena vive quella tragedia come inevitabilmente lo fa lo spettatore dell’opera.
Si vede un uomo morire in modo osceno e nulla si può fare per aiutarlo. Perché abbandonarlo così? Perché se è veramente figlio di Dio Egli, Dio, permette tutto ciò?
«Eli eli Lammà Sabactani»
«Dio mio dio mio perché mi hai abbandonato».
Ecco, Cristo si fa la medesima domanda d’ogni uomo. È un punto di tangenza essenziale, che ci permette di partecipare a quel dolore, di sentirlo sulla nostra carne, di rivedere nelle nostre vite tante piccole crocifissioni, di scorgere, in coloro che attorno a noi soffrono, tanti crocifissi. Chiederci poi, Dio mio, ma come è possibile tutto ciò?
Nel corpo torto e snodato di questo Cristo che con la sua passione torce anche la croce e le anime delle figure sulla sinistra, non troviamo speranza. Non la troviamo apparentemente nemmeno in questa quarta parola.
La figura di Giovanni Battista nella crocifissione
Una figura infine, quella di Giovanni Battista, è irrealmente presente alla scena (poichè già morto). Giovanni non si piega e al suo fianco sono tracciate in rosso delle parole: «Egli deve crescere e io invece diminuire». Sono parole riferite alla nascita di Cristo, al sole che dal giorno vicino al solstizio di inverno è destinato a crescere.
Qui Cristo sembra e si sente più che mai diminuito.
Qui Cristo è prossimo al suo più grande splendore.
Qui, in queste parole del Battista, c’è l’esaltazione della croce: la debolezza della creatura abbandonata che cede alla grandezza del Creatore.
Le sette parole di Cristo attraverso l’arte!
V. «Ho sete»
Attraverso queste sette parole ci viene rivelata quella che dovrebbe essere la forma mentis del cristiano. Nelle prime parole Cristo pensa all’altro: a coloro che non comprendono eppure fanno, al vicino che chiede aiuto, alla madre e al fratello. Solo con la quarta parola egli inizia a far trapelare il pensiero sulla sua condizione di condannato a morte e ora, con questo «sitio» al suo essere uomo, a un suo bisogno. Gesù, nell’ultimo suo momento, chiede agli uomini ciò che loro avrebbero dovuto chiedere a lui, acqua viva.
Chissà quale tipo di sete era quella di cui si racconta? chissà quale la fonte desiderata?
Nella celebre e incantevole Crocifissione bianca, Marc Chagall raffigura un Cristo solo in mezzo ad una moltitudine di vicende, accadimenti, simboli. Non vediamo ladroni, niente più vergine e Giovanni. A rendere la scena tragicamente dinamica è la contemporaneità di soprusi, stermini, violenze, tra villaggi e sinagoghe distrutte, memorie di pogrom, barche di profughi, madri disperate con i propri bambini.
Cristo e la sua croce sono soli. Nessuno porge l’orecchio. La scala poggiata al legno di quello strumento di morte è vuota. Cristo si rivolge questa volta non al ladrone, non alla madre, si rivolge all’uomo: «ho sete». Ma l’uomo non risponde o se lo fa, agisce schernendolo.
Un Cristo dimenticato che sperimenta la condizione di molti esclusi. La scala rimane lì, vuota, pronta ad essere salita in ogni momento per coloro che vorranno portare acqua (se questo chiede) a Cristo e ricevere indietro una pioggia d’acqua viva.
Cristo ha sete della sete d’ogni uomo.
VI. «Tutto è compiuto»
Ti ho amato di amore eterno
(cf. Ger 31, 3)
In questa crocifissione del Museo del Prado di El Greco, parte di quello che doveva essere un complesso ciclo cristologico di cui questa, nemmeno a dirlo, doveva costituirne il centro, percepiamo uno sfaldamento della realtà, un momento in completo divenire. Cristo si sta letteralmente svuotando del suo sangue, dalle sue piaghe si aprono cascate. I tre angeli con la Maddalena fanno di tutto perché questo non giunga a terra. Il legno della croce è segno da rivoli rossi.
È l’attimo della liberazione! Cristo sussurra il «tutto è compiuto».
L’uomo è stato finalmente svuotato. L’uomo è pronto a perdere definitivamente la propria vita.
Percepiamo però in quest’opera una tensione, la stessa forza che è celata nelle parole di Cristo: Consummatum est. C’è l’impatto tremebondo del fallimento, della morte, dell’umana finitudine. È come se Cristo dicesse: “Non posso amarti di più, non posso darti altre prove del mio amore”.
Allo stesso tempo c’è, in chi timidamente difronte a tanta desolazione resiste nel credere, la verità del ‘tutto è compiuto’ come annunciato, e la speranza del ‘tutto è compiuto’ per un futuro che sarà, per un domani che metterà radici su questo oggi.
Il chicco di grano se non passa dalla morte, non porterà frutto.
Umano e spirituale, terra e cielo. Allora, con gli occhi fissi ai rivoli di morte che scendono dalla croce, ci lasciamo avvolgere in questa tensione che trepidamente accenna a salire.
VII. «Padre, nelle tue mani, consegno il mio spirito».
Il sole si oscurò, la cortina del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù gridando a gran voce disse: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito». Detto questo spirò.
Ed è silenzio. Si entra in un buio silenzioso. Fin qui tutto era cresciuto, la passione non faceva che salire in quella continua oscillazione tra umano e divino. Ora tutto è fermo, freddo, il mondo sta.
D’ora in avanti è un discendere sincopato e lento della passione che prelude alla deposizione, al sepolcro. È il finire della sofferenza umana di Cristo, non certo di quella della madre e dei discepoli, È il discendere e lo stare del corpo morto.
Se il ‘tutto è compiuto‘ ci interrogava sul futuro degli uomini, quest’ultima parola ci riporta ad una riflessione su Cristo uomo e Dio. Egli sperimenta il limite, il confine, l’instabilità, ciò che prima o poi qualunque vivente dovrà affrontare. Da un lato l’abbandono, dall’altro la fede.
Ecco perché il Cristo crocifisso di Velazquez. Si narra che il pittore, non soddisfatto di una parte del volto lo abbia coperto con la ciocca di capelli che scende dalla corona di spine. Questo è il particolare che forse più di ogni altro rende quest’opera perfetta.
Sul volto del Cristo di Velazquez troviamo a destra l’abbandono, a sinistra la fede: il mistero di una bellezza che percepiamo eppure non vediamo chiaramente.
In tutta quest’opera avvolta di tenebre eppure così pacata, si scopre infondo che abbandono e fede in Cristo coincidono. In questa coincidenza e consapevolezza il corpo inizia già a brillare della luce del Padre e delle sue opere. Gesù inizia a vivere del chiarore delle risurrezione.