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L’arte di Giovanni Morbin in Something Else
Alcuni lavori politici e le memorie di fascismi presenti.
L’8 ottobre 2014 nella città croata di Rijeka viene inaugurata la mostra Something Else, una raccolta dei lavori politici e del l’arte di Giovanni Morbin.
Il nucleo delle opere analizzate in questo scritto è costituito da due performance (Something Else e Me), due istallazioni (Me e On/Off), cinque collage, una scultura (L’angolo del saluto) e tre ready-made (Hiccup, Libero e Untitled). Partiamo però dal luogo scelto dall’artista per questa esposizione: Rijeka.
Rijeka – Fiume: una polis proto-fascista
Il riferimento alla storia del ventennio permea ognuno dei lavori in mostra e assume un valore semantico ancor più profondo se si considera la città esser stata, con la reggenza del Carnaro, una “polis proto-fascista” e il luogo natale di un esperimento totalitario. Lo stesso edificio dell’esposizione, lo studio della HRT ( Radiotelevisione croata) al cui interno è ospitato il Mali salon del MMSU (Museo dell’arte moderna e contemporanea), è un soggetto storico fondamentale, in quanto fu la sede fascista dal cui balcone Gabriele d’Annunzio prima, e Mussolini poi, si rivolgevano alle folle, innestando il saluto romano nella liturgia prossemica dell’epoca.
Il saluto fascista: diffusione di un gesto
Rijeka dunque si rivela strettamente legata all’origine fascista di questo segno, il quale costituisce la base di molte delle opere in mostra. Infatti, nonostante la volontà di attribuire radici greco-romane per richiamarsi ad un glorioso passato, la standardizzazione del gesto, la sua celebrità e la connotazione politica, vedono il loro inizio nella conquista dannunziana al grido di «o Fiume o Morte» e nell’esperienza irredentista della reggenza. Un rito, quello del saluto, che divenne il più efficace visivamente per un rafforzamento del senso identitario e, insieme ad altri simboli, una forma «di propaganda per impressionare gli spettatori e conquistare proseliti».
La spontaneità della simbologia e della ritualità di questo primo «stato di effervescenza collettiva» che alimentava il fiumanesimo, si tradusse con il passaggio di testimone da D’Annunzio a Mussolini in una vera e propria religione, intesa come pedagogia di massa. Il gesto sempre più collettivo e corale, espressione della sovra-eccitazione per una «comune esperienza di fede», divenne con la formula del «saluto al duce» l’esempio dell’accettazione di una «subordinazione di tutti alla volontà di un Capo». Scelta, questa, che passava anche attraverso un’immagine del corpo come strumento, il cui spirito motore doveva essere in ogni caso lo stato.
Con questi presupposti le ‘azioni’ di Morbin assumono un valore semantico chiaro e potente.
Something Else: la performance
Nel giorno di apertura della mostra, l’artista presenta la performance Something Else (Fig. 1-4), nella quale egli passeggia per le strade della città, costretto e sostenuto da un gesso nella posizione del saluto. Morbin offre il suo corpo al gesto fascista come molti in passato e nel presente decidono di fare, consci o meno di divenire medium di messaggi e ideologie politiche. Tuttavia c’è l’ironica «cifra ortopedica» del gesso a velare l’azione, introducendo il dubbio nella mente dell’osservatore – «it’s something else» – e svelando in parte la volontà dell’artista stesso di essere, con il suo corpo, «catalizzatore di reazioni».
Come la performance anticipa, la mostra non appare pensata con finalità documentarie e didascaliche, piuttosto, evitando una re-immersione nella storia, Morbin tenta di destabilizzare e spiazzare lo spettatore attraverso l’insinuazione del dubbio.
La serie L’angolo del saluto
Libero (2007)
Questa serie di opere nasce dall’individuazione dell’angolo del saluto fascista il quale diviene il limen tra una mise en scène corporea destinata a un pubblico e il volume d’aria sottostante. Questa contrapposizione complementare è resa evidente nell’opera Libero (2007), nella quale un libro viene tagliato lungo le semirette che compongono l’angolo, manifestando in copertina una separazione netta tra la folla e l’immagine del duce. Quest’ultima insieme al titolo in rosso «Monaco 1938» giace in orizzontale come testimonianza di una storia da leggere, mentre la restante parte con il sottotitolo «discorsi di prima e dopo» si erge a costituire una vera e propria maquette per la scultura.
Hiccup (2007)
All’immagine di Mussolini oratore fa riferimento l’opera Hiccup (2007), un giradischi su cui poggia pronto all’ascolto un vinile contenente discorsi del duce e tagliato secondo l’angolo sopra citato. Il titolo dell’opera – singhiozzo in italiano – evoca ciò che più è sconveniente per colui che deve parlare a un pubblico: una contrazione muscolare involontaria, un intoppo spietatamente ironico, un’interruzione di una qualsivoglia enfasi oratoria e, come non bastasse, un procedimento auto-distruttivo della test(in)a.
Untitled (2014)
Altro oggetto di questa serie è un goniometro Untitled (2014) in acciaio inox, in cui la funzione misuratrice viene inibita a favore di un’immobilità indicale: 133° ca., l’angolo del saluto appunto, l’assurda formalizzazione di un ‘ciao’ che deve sottostare, anch’esso, alle «atroci ‘regole auree’» e agli «pseudo scientifici ‘canoni’» del regime.
È la forma derivata da questa misura ad essere applicata con carte trasparenti su quattro foto d’epoca (Untitled, 2006-2008) e a un’edizione del 27 febbraio 1940 de Il popolo d’Italia ( Il popolo d’Italia, 2007), ponendo in evidenza i volumi d’aria cuspidati risultanti dal gesto del saluto.
On/Off
Un differente utilizzo di una foto d’epoca è alla base dell’istallazione On/Off (2014). Nell’immagine sono ritratte delle infermiere insieme a due uomini, tutti in atto di saluto, ma con il braccio sinistro. Osservando attentamente i particolari si nota l’inversione delle allacciature di tute e camicie e quindi si deduce che la posizione, giusta nella realtà, ha subìto un capovolgimento nel processo di stampa. Volontario o accidentale che fosse, l’immagine viene ‘corretta’ dalle mani dell’artista, il quale, mettendole uno specchio di fronte, riporta alla luce l’originale, il negativo della foto, lasciando però al centro della scena un dubbio di lettura: un atto rivoluzionario o un semplice errore?
L’angolo del saluto la scultura
Il volume d’aria al di sotto del braccio teso fin qui nominato, prende forma materica nella scultura L’angolo del saluto (2006). Un prisma a base triangolare in MDF il cui vertice più acuto e alto è costituito da una lama di acciaio inox. La scultura appare allo spettatore nella sua aggressività, caratteristica conferitale secondo Cesare Pietroiusti dalla sua linea minimalista e netta, mostrando una potenzialità offensiva nient’affatto estranea al gesto del saluto fascista. Questo elemento permette un accostamento diacronico con «les forces de l’image» di numerosi lavori del ventennio in cui i meccanismi di rappresentazione contribuivano ad una estetizzazione della vita politica: «Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di un’apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali».
La lama presente nell’opera, oltre a evocare la forma d’una ghigliottina, coerente con il sedicente movimento rivoluzionario che era il fascismo delle origini, può essere riferita anche all’immaginario comune della presenza di pugnali e coltelli nel saluto antico. A ciò si aggiunge il fatto che: «coloro che non salutavano erano messi al bando», a dimostrazione che il gesto stesso divenne un’espressione di adesione al progetto fascista. Strutturalmente la forza della lama si poggia su una costruzione cedevole, realizzata in materiale povero e logorabile al tatto, «quasi uno stampo per un’azione da compiere».
Tornando al processo di formazione della scultura, se vi applichiamo il pensiero di Luis Marin per cui «le roi n’est roi que dans ses images», si conferma l’importanza dell’azione di obliterazione messa in atto sull’immagine del duce. Il volume d’aria, seppur privato dello «charisme du chef», conserva nell’opera quel carattere di forza in potenza che di quello charisme era veicolo, rischiando di divenire esso stesso una maquette per il profilo di un qualsiasi altro capo.
È nel progetto stesso del lavoro infatti il riferimento al carattere catartico della scultura, al suo essere liberatrice di inibizioni, un’idea da usare come attrezzo («‘reale’ misuratore angolare del saluto») per il cui utilizzo è però necessario attivarsi.
Infine, nonostante la scultura rappresenti il frutto e lo strumento di «un’analisi di ordine comportamentale e gestuale», la materia non viene celata e anzi si evidenzia in una continua ricerca e «tensione verso la forma». Con il richiamo al saluto romano e alla sua potenziale energia Morbin non solo «indica il pericolo di una nuova ascesa dell’estrema destra», ma lancia un «monito rivolto allo spettatore a non distrarsi, a non abbassare la soglia dell’attenzione, a non esercitare un’azione – di qualsiasi natura – soprappensiero».
Me performance e istallazione
La performance
Nella performance Me Giovanni Morbin rotea velocemente su uno sgabello, apparendo al pubblico come forma dinamica a pochi metri dal Ritratto continuo del duce (1933) di Renato Bertelli. La forza centrifuga impedisce all’artista di declamare la dichiarazione di guerra del 10 Giugno 1940 e dopo sette tentativi Morbin, rialzatosi da terra, si avvicina ad una parete e traccia una M in carattere fascista e, di seguito, una e corsiva (Fig. 17, 18). L’azione assume un carattere cruciale nel momento in cui, dopo i reiterati fallimenti, la protasi «I decided that I wanted to be fascist as well» viene messa in dubbio dalla scritta Me («questo sono io, scusate, ci ho provato, ma non riesco»).
Se in un primo momento la M, iniziale di Mussolini, ma anche dell’artista, rafforzava l’unione tra i due, l’aggiunta della e «implica una messa in gioco in prima persona» dello spettatore, in quanto Me, «lo dice e lo pensa un soggetto». La traslazione dell’interrogativo sull’osservatore è corroborata dal carattere fascista della prima lettera, la quale parla di una memoria storica condivisa, e, di contrasto, dalla soggettività del corsivo (carattere personale identitario) della seconda.
Le foto della performance (Me, 2010-2011) esposte in mostra, aiutano a visualizzare il problema attorno cui ruota l’opera: il fuori fuoco. Su questo punto il lavoro di Bertelli è assimilabile al ritratto dell’artista in movimento: il primo, una «non rappresentazione dell’immagine di un dittatore», il secondo, una non rappresentazione, e quindi una pericolosa invisibilità, dei fascismi contemporanei.
L’istallazione
Me è anche un’istallazione (Fig. 19, 20), realizzata nel 2014 sulla facciata dell’edificio delle imposte dirette, ex casa del fascio di Valdagno, in cui l’artista decide di applicare a fianco della M mussoliniana una e corsiva in marmo rosa. Morbin in questo caso interviene su un edificio di chiara architettura fascista, riportando l’attenzione sulla storia di quel luogo e su ciò che esso significava per la comunità. L’artista si incunea, attraverso il pubblico, nella quotidianità privata del passante, presentandogli uno spunto per un’assunzione di responsabilità e di memoria.
L’arte di Giovanni Morbin: memorie di fascismi presenti
Un’introduzione di «gesti nello scorrere del giorno», questo sono le opere di Morbin, le quali una dopo l’altra mettono lo spettatore vis à vis con il proprio ego fascista, assopito in lui, e che «now is emerging again», ponendo ancora una volta la scelta di contrapporre o meno quel retorico ‘io no’ al fascismo interiore cui tutti ci illudiamo di contrapporci, «senza riconoscere che in realtà è dentro di noi». Un fascismo che tra le mani dell’artista diviene strumento maieutico di svelamento, nel presente, «di zone oscure che sono parte della nostra psiche» e, in termini sociali, di fermenti invisibili e subdoli «di fascismo patinato, di fascismo educato, di fascismo perbenista, di fascismo borghese, benestante e apparentemente anche benevolo».
Lo studio del fenomeno come realtà storica è dunque teso all’elaborazione di procedimenti metaforici attraverso i quali giungere ad una individuazione e comprensione di quei fascismi meta-storici che invadono oggi la sfera antropologica e che prendono forma «nei modi di agire individuali e nella gestione del potere – politico, economico, mediatico». Opere che dunque portano a discernere sul contemporaneo assolvendo quello che è secondo Morbin il compito dell’arte e degli artisti: «rappresentare il proprio tempo offrendo il mondo in un modo che non è mai stato possibile vedere prima», avendo esse «il dovere di mettere in discussione le abitudini». E se, come sostiene Agamben, «può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità», si manifesta la necessità di leggere tra le righe del l’arte di Giovanni Morbin una stringente e urgente attualità.
Bibliografia
- Acquarelli, 2015: Luca Acquarelli, Esthétisation de la politique et diagrammes de force du pouvoir : la propagande fasciste, in Id., Au prisme du figural. Le sens des images entre forme et force, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2015, pp. 69-96.
- Agamben, 2018: Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Milano, 2018.
- Benjamin, 1998: Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino;1998.
- Bignotti, 2010: Ilaria Bignotti, ICONE IMPOTENTI, il dissenso politico e ideologico nell’arte italiana contemporanea, dalla pop art alle ultime generazioni, in “Ricerche di S/Confine, oggetti e pratiche artistico/culturali”, vol. I, n. 1, Dipartimento dei Beni Culturali e dello Spettacolo Università di Parma, Parma, 2010, pp. 191-210.
- Capra, 2014 (a): Daniele Capra, Mai abbassare la guardia, in Daniele Capra e Slaven Tolj (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 97-102.
- Capra, 2014 (b): Daniele Capra (a cura di), Contro l’assopimento delle facoltà critiche. Conversazione con Cesare Pietroiusti, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 111-115.
- Capra, 2014 (c): Daniele Capra (a cura di), Procedere per sviste. Conversazione con il sig. Orbin, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 116-120.
- Castiglioni, 2014: Alessandro Castiglioni, Corpo plurale. Ipotesi di lavoro per le Ibridazioni di Giovanni Morbin, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 103-104
- Fabbris, 2014: Eva Fabbris, Memoria corsiva, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 105-106.
- Gentile, 2005: Emilio Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma, 2005.
- Gentile, 2015: Emilio Gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma, 2015.
- Tolj, 2014: Slaven Tolj, O Fiume o morte, in Daniele Capra e Slaven Tolj (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, p. 95.
- Winkler, 2009: Martin M. Winkler, The roman Salute, Cinema, History, Ideology, The Ohio state University Press, Columbus, 2009.
Sitografia
- S.a., Giovanni Morbin, in <https://quadriennale16.it/artists/giovanni-morbin/>.
- Slaven Tolj e Daniele Capra, GIOVANNI MORBIN Something Else, in <http://www.artericambi.com/giovanni-morbin-something-else/>.
- S.a., Un catalogo di Giovanni Morbin, in <http://www.artericambi.com/something-else-un-catalogo-di-giovanni-morbin/>.
- S.a., Roma, studenti fanno il saluto romano in classe, in <https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/06/07/roma-studenti-fanno-il-saluto-romano-in-classe-la-preside-goliardata-i-prof-contro-di-lei-inaccettabile-minimizzare/4410923/>.
- Andrea Tundo, Milano il saluto romano dei neofascisti a Campo Dieci, in<https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04/30/milano-il-saluto-romano-dei-neofascisti-al-campo-dieci-aggirato-divieto-del-25-aprile/3552183/>.
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L’Ecce Homo di Madrid: un Caravaggio?
Si sa, appena si fa il nome di Caravaggio, è subito stupore e notizia. Ed è proprio grazie alla presunta paternità del Merisi, che l’Ecce Homo di Madrid è diventato in poche ore il dipinto del momento.
Come è noto, il quadro doveva essere battuto in asta a Madrid l’8 aprile scorso. Nel catalogo della casa d’Asta Ansorena era indicato al lotto 229: L’incoronazione di spine, olio su tela, 111×86 cm, attribuito alla cerchia di Jusepe de Ribera, con una base d’asta molto bassa: 1.500 euro. Forse un po’ troppo bassa.
L’Ecce Homo di Madrid: descrizione dell’opera
Al di là di una balaustra, con un taglio a mezzo busto, vediamo tre figure. Al centro Cristo coronato di spine, il capo leggermente chino e rivolto verso destra. Alle sue spalle lo sgherro che, con un’espressione attonita, fissa lo spettatore mentre compie l’azione di ammantare la figura di Gesù con un telo rosso. Infine, sul lato opposto in primo piano, vediamo la figura di Pilato con una fisionomia segnata e uno sguardo intenso. Anche quest’ultimo personaggio si volge all’osservatore.
Una composizione studiata per suscitare un intenso pathos, un’emozione umana vicina agli occhi di chi la guarda. Le tre figure sono pensate come una sola, tutto ruota intorno a Cristo: il protagonista dell’opera.
La gestualità delle mani, assume in questa tela un valore centrale. Quelle di Pilato, in particolare, ci mostrano la figura del Cristo, l’una indicandolo e l’altra toccandolo.
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Le fonti ci dicono…
Proviamo ora a ricostruire, attraverso le fonti storiche, quella che potrebbe essere la storia di questo dipinto.
Nella biografia del Cigoli, scritta dal nipote Giovan Battista Cardi (1628) si fa riferimento ad un concorso voluto dalla Famiglia Massimi per la realizzazione di un Ecce Homo.
Tale concorso interessò Caravaggio, il Cigoli e il Passignano.
Inoltre sappiamo dalle note in alcune carte d’archivio della Famiglia Massimi a Roma che:
«Io Michel Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obligo a pingere all Ill.mo Massimo Massimi per essere stato pagato un quadro di valore e grandezza come è quello ch’io gli feci già della Incoronazione di Crixto per il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa, questo dì 25 Giunio 1605.»
(nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)«A dì marzo 1607 io Lodovico di Giambattista Cigoli o ricevuto da Nobili Signor Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagno di uno altra mano del sig.r Michelagniolo Caravaggio resto contanti scudi sopradetto Giovanni Massarelli suo servitore et in fede mia o scritto q.o di suddetto in Roma. Io Lodovico Cigoli.»
(nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)Come racconta Giovan Battista Cardi il quadro vincitore fu proprio quello dello zio, il Cigoli, oggi conservato a Palazzo Pitti mentre gli altri due dipinti furono venduti.
Inoltre il biografo Giovan Pietro Bellori nelle sue Vita de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672 scrisse così:
«Michel Angiolo Merisi da Caravaggio…… Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna»
Alla luce di queste testimonianze è possibile affermare che Caravaggio eseguì un Ecce Homo nel 1605, ma non sappiamo con certezza se si tratti proprio dell’Ecce Homo di Madrid.
Attribuzione di Roberto Longhi
Nel 1954 Roberto Longhi identificò come l’Ecce Homo Massimi il dipinto oggi conservato al Museo di Palazzo Bianco di Genova. Molti gli studiosi non concordi con tale attribuzione. Nonostante sia un dipinto che sicuramente guardi al Merisi, esso manifesta delle tonalità e dei tratti aspri, lontani dalla sensibilità pittorica del maestro.
L’Ecce Homo di Madrid è di Caravaggio
Invece per l’Ecce Homo di Madrid molti sono stati gli elementi che hanno convinto il mondo dell’arte. Così si è intonati tutti insieme e a gran voce il nome di Caravaggio, seppur con entusiasmi diversi.
Tra i più convinti, solo per citarne alcuni, vi sono: Massimo Pulini, Vittorio Sgarbi, Dario Pappalardo, Maria Cristina Terzaghi, Stefano Causa, e Rossella Vodret.
I dettagli chiave
Secondo gli studiosi i dettagli rivelatori dello stile di Caravaggio sono da rintracciarsi nelle pennellate dense del manto purpureo (che sembrano richiamare la Salomè del Prado), nella costruzione di luci e ombre per esaltare la figura centrale del Cristo, nelle mani protagoniste (che con quel impercettibile tocco di luce sull’unghia del pollice di Pilato attraggono lo sguardo dello spettatore). E ancora: nelle labbra e negli occhi di Cristo (affine al David di Villa Borghese) e in quel dettaglio morelliano dell’orecchio della figura in primo piano, con la chiarezza di delineazione e posizionamento tipica di Caravaggio, come sottolinea in un articolo Keith Christiansen.
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La tecnica pittorica
Dall’analisi di alcune macrofotografie si sono individuati degli abbozzi di ‘biacca a zig-zag’, un elemento nient’affatto marginale secondo la dottoressa Rossella Vodret. Infatti questo pigmento e le modalità del suo utilizzo si riscontra in alcune opere di Caravaggio a partire dal 1605, come il San Girolamo Borghese, il San Girolamo di Montserrat, la Flagellazione di Capodimonte. Tali abbozzi di biacca venivano impiegati dal Merisi per fissare, sulla preparazione scura, le zone da mettere in luce.
Ipotesi di provenienza dell’Ecce homo di Madrid
Vodret, insieme ad altri studiosi, non è concorde nel riconoscere la tela di Madrid come l’Ecce Homo Massimo (1605). Secondo la studiosa una possibile provenienza potrebbe risalire dalla raccolta di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, che fu viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659. Da alcuni inventari è noto che il viceré possedeva due tele originali di Caravaggio: una Salomè (di Madrid) e un Ecce Homo con soldato e Pilato che misurava 5 palmi. I dipinti sarebbero poi arrivati in Spagna in seguito alla fine dell’incarico come viceré.
Recentemente sul il quotidiano El País sono stati resi noti gli attuali proprietari dell’opera: i Pérez de Castro Méndez.
Una famiglia madrilena già nota al mondo dell’arte, in quanto responsabile della direzione della scuola di disegno e moda Iade di Madrid.
La loro discendenza risale a Evaristo Peréz de Castro, personaggio politico e redattore della Costituzione di Cadice del 1812. Il casato sarebbe entrato in possesso della tela nel 1823, ricevendolo in cambio di un’ opera di Alonso Canodalla dalla Real Academia di San Fernando, dove il Cristo dipinto era registrato come un “Ecce-Hommo con dos saiones de Carabaggio”.
Un dipinto di impianto caravaggesco
Tra i pareri più ponderati e prudenti troviamo quello di Tomaso Montanari il quale afferma in un suo articolo sul Fatto Quotidiano del 9 aprile:
«Il coro degli specialisti che hanno visto l’opera pare unanimemente entusiasta. Una cosa risulta chiara anche dalle fotografie disponibili: la sua struttura è tipicamente caravaggesca. È certamente isterico tutto il carrozzone allestito nella sala parto mediatica che da Madrid si estende a tutte le redazioni del mondo: dalla rivendicazione della scoperta (in un imbarazzante sovrapporsi di: ‘l’ho detto prima io!’), al gioco dei rimbalzi tra siti, giornali, televisioni (…). Oggi, però, è concreta la possibilità che, alla fine, un Caravaggio nasca davvero. A suggerirlo sono la qualità, la forza, la presenza dell’opera stessa».
Montanari afferma inoltre :
«L’invenzione del quadro (cioè la sua struttura, la composizione, la disposizione delle figure e la costruzione dei loro gesti) è tipicamente caravaggesca (…). La capacità di bloccare un attimo, raggiungendo il massimo del pathos attraverso la combinazione più drammatica possibile di poche mezze figure è la quintessenza dell’ultimo Caravaggio»
Non tutti concordano con l’ipotesi Caravaggio
E infine rimangono delle voci fuori dal coro. Una tra tutte quella di Nicola Spinosa, tra i massimi esperti delle pittura napoletana del Seicento. Quest’ultimo dissente dall’attribuzione al Merisi propendendo più per un caravaggista della prima ora, forse non proprio Ribera.
Dunque a chi dare ragione?
Solo il tempo ce lo dirà. Solamente uno studio accurato e approfondito, supportato dagli strumenti scientifici dalle indagini diagnostiche potranno sostenere l’ipotesi Caravaggio o smentirla.
In ogni caso, che si tratti di un Caravaggio o no, l’Ecce Homo di Madrid è sicuramente un’opera di raffinata qualità pittorica ed emotiva. L’opera di un grande artista, quale esso sia.
articoli di riferimento:
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Il Napoleone di Jacques Louis David e di Alessandro Manzoni
Il Napoleone di Jacques Louis David, conobbe infine la morte. Alessandro Manzoni, nel suo celebre poema Il cinque maggio, restituisce così l’immagine d’un uomo, l’effigie di un imperatore.
Ei fu. Siccome immobile
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro.
Parole che consegnano all’eternità la vita e le gesta di un uomo, che riuscì in molto di ciò che si era preposto, e che, come dice brachilogicamente il Manzoni si trovò due volte nella polvere due volte sull’altar.
Parole queste, di uno che di Napoleone mai aveva scritto, mai lo aveva conosciuto di persona. Parole che rimbombano, oggi, nel frastuono silenzioso di questa ‘riapertura’, e ci ricordano sì la vita di un uomo dal temperamento indomito, dalla volontà ferrea e dai grandi progetti, ma anche, più crudamente, la morte, la terra. Ed è ciò che oggi, più di tutto, vorremmo dimenticare e mettere da parte: la sfilza di convogli militari colmi di bare, le fosse comuni statunitensi, le migliaia di morti nel mondo e nella vicina Lombardia, gli anziani nelle prigioni dorate.
Loro furono. Deceduti, anche loro in esilio, dopo una vita. Persone semplici alle quali è stato negato, spesso, persino un ultimo saluto. Solo silenzio.
Parole e immagini hanno il potere di circoscrivere l’infinitezza della morte. Parole scritte dai nonni ce li fanno rivivere seppur per pochi secondi, così le foto affisse sulle tombe o nelle cornici delle foto di famiglia. Ci regalano tuffi nel passato che si rivelano poi spesso tonfi al cuore e che, un cuore, ci ricordano di averlo.
Jacques Louis David da rivoluzionario a pittore ufficiale di Napoleone
Certo, per Napoleone molte furono le parole e altrettante le immagini. Tra queste, le più celebri, e quelle che probabilmente egli stesso preferiva, erano le tele di Jacques Louis David. Pittore celebre della Francia dell’epoca, vincitore del Prix de Rome nel 1774, battagliero nelle questioni accademiche, rivoluzionario e autore di alcune delle immagini più celebri della rivoluzione: Il giuramento della Pallacorda, la morte del martire Marat.
Di lì a pochi anni, va detto, dopo non poche declinazioni agli inviti di Napoleone, divenne sostenitore di questo nuovo personaggio, e, infine suo pittore ufficiale.
Napoleone valica le Alpi al Gran San Bernardo
Nel 1800 il re di Spagna Carlo IV richiede a David il ritratto del Primo console (Napoleone Bonaparte) da esporre nel salone ‘dei grandi capitani’ del Palazzo reale, in onore dei buoni rapporti che intercorrevano con la Francia. E’ in questa occasione che trova origine l’immagine più nota del condottiero che supera le Alpi al Gran San Bernardo. E finalmente, con quest’opera è svelato il mistero del colore del cavallo bianco di Napoleone.
Napoleone volle concordare con David i dettagli dell’opera, scegliendo la composizione che oggi vediamo in sostituzione di un semplice ritratto in piedi. Richiese a David una copia del dipinto. Oggi ne conosciamo circa sette copie. L’ufficialità della rappresentazione è calibrata da David secondo modelli classici: a cavallo come Luigi XIV, tra gli altri, e giovane come Alessandro Magno.
David insistette perché Napoleone andasse a posare nel suo atelier. Napoleone rispose:
«Posare? a che pro? credete voi che i grandi uomini dell’antichità avessero il tempo di posare per le loro immagini?
Quindi David: Ma cittadino primo console io dipingo in questo secolo, per uomini come voi, che sanno il valore di queste cose e la necessità della rassomiglianza.
Napoleone: Rassomiglianza? Non è per l’esattezza dei tratti che si mette insieme un ritratto. E’ il carattere della fisionomia dell’anima che bisogna dipingere. […] Le persone non chiedono se il ritratto dei grandi uomini del passato sia somigliante, ma gli basta che attraverso quelle opere il loro genio riviva.»
L’incoronazione di Napoleone
Poi, nel 1804 David riceverà la commissione per quattro grandi tele di cerimonia, tra le quali, l’immagine eterna dell’incoronazione di Napoleone I: un dipinto terminato quattro anni dopo, oggi al Louvre e grande 9,80 x 6,20 m.
«Disegnai la scena dal vivo e fissai separatamente tutti i gruppi principali. Annotai quello che non potevo fare in tempo a disegnare […] Ciascuno occupa il posto secondo l’etichetta, vestito degli abiti propri alla sua dignità. Dovetti affrettarmi a riprenderli in questo quadro, che contiene più di duecento figure»
Ciascun particolare su questa tela fu attentamente studiato. Le posizioni dei personaggi, molti dei quali riconoscibili, seguono l’etichetta di un rito deciso nei minimi dettagli da Napoleone stesso. Un’incoronazione ‘nuova’ che non poteva ricalcare in toto le cerimonie per i re di Francia e che attingeva a piene mani alla ritualità imperiale. Alcuni bozzetti dell’opera ci mostrano i tratti originali e i cambiamenti che David apportò in corso d’opera.
Napoleone che pone la corona sulla sua testa, nel dipinto sembra incoronare la moglie Giuseppina. La posa rassegnata e passiva del papa Pio VII diviene un atteggiamento benedicente. La madre di Napoleone Letizia assente all’incoronazione, compare, per volontà dell’imperatore, nel dipinto.
L’opera è un tripudio di ricchezza e sfarzo, tra i manti di velluto rosso rifilati in ermellino e trapunti di api dorate, e non dei gigli borbonici.
La morte di Napoleone
Sarà nel 1815 che Napoleone, dovette fare i conti con la sua finitezza, di lì, esiliato sull’isola di Sant’Elena, morì nel 1821.
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar se stesso imprese,
E sull’eterne pagine
Cadde la stanca man!
Napoleone in qualche modo ebbe tutto, persino anni di tempo per scrivere il suo passato e il futuro che s’immaginava. Questo (e molto altro) fu il Napoleone di Jacques Louis David e di Alessandro Manzoni.
Oggi infine noi, dall’esilio speriamo finito, apprezziamo questo tempo che, se c’è è comunque vita, e usciamo dal naufragio bagnati di ricordi e, seppure stanchi, pronti!
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Impressione, levar del sole di Claude Monet-PODCARD
Il 1874 fu l’anno della prima mostra Impressionista.
L’esposizione si tenne presso lo studio del fotografo Nadar.
Tra i quadri esposti vi era Impression, solei levant (Impressione, levar del sole) di Claude Monet.
Il dipinto raggiunse un’incredibile fama grazie alla recensione del critico Lenoy che utilizzò il titolo dell’opera per coniare l’appellativo del movimento artistico: impressionismo.
Claude Monet realizza il dipinto non tenendo conto dei criteri convenzionali con i quali si era soliti dipingere una veduta del genere.
Tutto il quadro è avvolto in una foschia azzurra.
In lontananza si percepiscono appena le forme delle imbarcazioni.
Il sole riflesso sull’acqua crea inaspettati giochi di colore, un’atmosfera calda e poetica.
Con Impressione, levar del sole Claude Monet inviata lo spettatore a guardare la natura attraverso le emozioni suscitate delle armonie dei colori, disattendendo consapevolmente le regole tradizionali di creare una composizione pittorica.
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Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti
Uno dei cicli di affreschi più belli e significativi del Medioevo. L’espressione limpida della visione di una società attraverso la pittura di Ambrogio Lorenzetti. Scopriamo insieme i significati celati dietro l’Allegoria e gli effetti del buono e del cattivo governo.
In questi giorni si sta molto discutendo riguardo il ritorno alla normalità. Articoli, giornalisti, sociologi, si chiedono quando si potranno di nuovo intravedere la spensieratezza e al tempo stesso la vita frenetica del prima Covid-19. E più che altro si inizia finalmente a discutere su un tema che da tempo si era lasciato da parte, in favore di una navigazione alla giornata, e cioè: quale è la nostra rotta? Quale la società che vorremmo?
L’utopia non è certo benvenuta nel XXI secolo, soprattutto a livello politico, e se pensiamo alla città ideale di certo non pensiamo a quelle a noi contemporanee. Si tende piuttosto a fare un salto all’indietro, all’ideale rinascimentale, o alle illustrazioni e immaginazioni che artisti, scrittori e filosofi d’ogni epoca ci hanno lasciato.
Ma quello che andremo a scoprire oggi è una città ideale che, seppure sembri carezzare l’utopia, non pare poi così irrealizzabile. L’artista o colui che concepì l’opera, aveva ben chiaro come poter giungere a quell’obiettivo e volle dipingerlo, rendendolo eterno, sulle pareti del palazzo pubblico di Siena, nella celeberrima Piazza del Campo: il ciclo di affreschi dell’allegoria e degli effetti del buono e del cattivo governo.
Una breve storia di Siena
Tutto partì da Roma, almeno per la leggenda: Aschio e Senio, figli di Remo fuggirono da Roma e fondarono la città di Siena, il cui nome deriva appunto da Senio. Tutt’oggi il simbolo della città è la lupa senese, la stessa lupa che aveva allattato loro padre, la quale però viene qui raffigurata con il muso rivolto davanti a sé. In realtà, Siena, fu un semplice villaggio etrusco e tale sarebbe rimasto se non fosse passata di lì la via francigena. La città infatti, non avendo fiumi o sbocchi sul mare, sarebbe risultata alquanto isolata. Siena era dunque una città in via e già dopo il Mille risultava essere una tra le quindici città più importante d’Europa per commerci, tanto da entrare in aperto contrasto con Firenze.
La scelta del luogo: La sala dei Nove
Siena, la piazza del Campo e il Palazzo Pubblico. Quest’immagine della città è un quadro senza tempo di una cultura e di una società medievale che avevano qui il loro centro. Il vero cuore della civitas Virginis erano infatti due sale: La sala del consiglio generale, e la sala dei Nove.
Da un affresco realizzato nel 1315 collocato nella prima sala prendiamo le mosse per scoprire il ciclo del Lorenzetti nella seconda sala, ripercorrendo probabilmente il medesimo percorso che compì il più celebre tra i pittori della Siena dell’epoca. Al centro della grande Maestà di Simone Martini vi è la Vergine in trono con Cristo, il quale regge un cartiglio a monito dei duecento uomini che si riunivano in quella sala: “diligite iustitiam qui iudicatis terram”.
Il ciclo di affreschi dell’Allegoria e degli effetti del buono e del cattivo governo
Da questa medesima frase parte la narrazione nella sala successiva. Pochi anni dopo la realizzazione della Maestà del Martini, tra il 1337 e il 1338, all’interno della sala dei Nove (il fulcro del potere politico cittadino) venne realizzato l’affresco che oggi è una delle testimonianze più importanti della prima arte civile: l’allegoria e gli effetti del buono e del cattivo governo.
Gli affreschi del ‘Bene comune e della Pace’
La denominazione di questi affreschi è ottocentesca e, in quanto tale, rischia di non cogliere il nòcciolo del significato della rappresentazione. Ambrogio Lorenzetti di cui troviamo tutt’oggi la firma, integra le immagini con una canzone in sessantadue versi, la quale commenta il significato degli affreschi.
Immagini parlanti dunque. Da questi versi comprendiamo che non si tratta dell’allegoria di un ‘buon governo’, bensì di affreschi che raffigurano i valori del Bene Comune a della Pace. Basta cambiare la prospettiva: se la prospettiva è lo stato allora si parla di buon governo, ma se la prospettiva è la società allora allora si può (e si dovrebbe sempre più oggi) parlare di bene comune.
L’Allegoria del Bene comune o del buon governo
Iniziamo dalla parete Nord: la lettura può cominciare dalla figura femminile sulla sinistra, una regina, vestita di porpora e d’oro. Una iscrizione con le medesime parole della pergamena nell’affresco del Martini campeggia sulle sue spalle: è Giustizia. Sopra di lei, la Sapienza Divina che regge la bilancia. Su questa si compensano la Giustizia commutativa (che si basa su un principio di equità) e la Giustizia distributiva (che premia il buono e punisce il cattivo).
Dai due piatti della bilancia partono due corde che arrivano tra le mani della Concordia (cum cor– con lo stesso cuore, false etimologie), la quale ha una pialla poggiata sulle gambe per levigare gli attriti. Costei passa la corda a ventiquattro cittadini senesi i quali si legano spontaneamente tra loro. Sono loro a decidere a chi dare l’altro capo della corda, tenuto in mano dalla figura dimensionalmente più grande: un uomo, un re sembrerebbe, il Comune di Siena. Come lo capiamo? numerosi sono i simboli che ce lo illustrano: la veste soppannata in pallio, la lupa con i gemelli ai suoi piedi, la Vergine con il bambino sullo scudo.
Ecco allora che tutti quegli uomini che sono stati resi concordi dalla Giustizia e che a essa restano fedeli, fanno loro signore il Bene comune. Quest’ultimo deve però volgere gli occhi alle tre virtù cardinali (Fede Speranza e al centro la Carità) e rimanere al fianco delle quattro virtù cardinali e operative: Temperanza, Giustizia, Prudenza, Fortezza. A queste Ambrogio Lorenzetti aggiunse la Magnanimità e la Pace.
Pace risulta essere il cuore del dipinto poichè è il centro del desiderio umano. Una figura di indimenticabile bellezza e grazia.
Quando a questa corda non ci si lega, essa diviene prigione. Ed è questo il destino di coloro che scelgono di non farlo, scegliendo il male.
Gli Effetti del bene comune
Nella parete orientale della sala, dal lato del sol nascente, vengono raffigurati gli effetti di questo bene comune. La canzone al di sotto degli affreschi recita:
«guardate quanti ben vengan da lei e come è dolce vita e riposata»
Quella che si osserva è una città bellissima, non come le vuote e inesistenti città del Rinascimento, bensì viva e reale: è Siena.
Una comunità che mette al centro il bene comune è una comunità che cresce e che costruisce. In ogni angolo di questa città ci sono persone che lavorano: i tessitori, il notaio, i venditori di generi alimentari, coloro che studiano, il contadino e il pastore.
Un altro effetto è la presenza delle famiglie. Nella parte centrale in basso vediamo una sposa con il corteo nunziale, alcuni uomini parlano tra loro, i bambini giocano e le donne danzano.
Gli effetti del bene comune o, se si vuole, del buon governo, si estendono anche alle campagne, le quali divengono giardini popolati. In primo piano la porta della città e la via trafficata, teatro di commerci e della sfilata di un maialino di cinta senese. Sullo sfondo la campagna senese con tutte le attività produttive e i campi coltivati. Ancora oltre un magnifico paesaggio.
A campeggiare su questa parte di affresco, sopra la porta cittadina, è la figura allegorica di Sicurezza. Costei rappresenta l’ultimo sigillo di una città ben governata.
L’allegoria del bene proprio o del Cattivo Governo
Sulla parete occidentale, lì dove il sole muore, viene rappresentato l’esatto opposto: l’allegoria del bene proprio e gli effetti di questo sulla città e le campagne.
La situazione è qui completamente ribaltata. Si parte ancora da Giustizia, spogliata delle vesti, piangente e legata. Al bene comune si sostituisce un tiranno, colui nella comunità cerca il bene proprio. È raffigurato con attributi demoniaci e strabico. A guidarlo sono Avarizia, Vanagloria e Superbia, coloro che accecano chi cerca il bene proprio. A circondato sono invece i sei Vizi capitali, in opposizione perfetta alle sei virtù. Opposta alla bianca figura della pace, c’è la nera figura della Guerra.
Il tiranno infine, poggia i piedi su un caprone (la Lussuria).
Gli effetti sulla città sono di cifra opposta. Essa è cadente, in rovina. I soldati distruggono quanto trovano e a lavorare son solamente coloro che fabbricano armi. La distruzione e la desolazione permeano nelle campagne. Qui al posto di Sicurezza troviamo un’altra figura demoniaca: Timor. Egli tiene un cartiglio con su scritto:
«per volere il bene proprio in questa terra sommesse la giustizia a tirannia»
Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo.
Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo
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Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso
Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso è l’opera che spalanca le porte all’arte del Novecento. Realizzata nel 1907 e oggi conservata al MoMa di New York è la tela simbolo di quello che sarà, l’anno successivo, iniziato a definire ‘cubismo’. Tre nomi, insieme a quelli di Picasso e Braque (i padri di questa arte), ci aiuteranno a comprendere la genesi di quest’opera e a entrare in questa tela mostruosa.
Mostruosa, nel senso letterale e originario del termine: un qualcosa che crea scalpore, un prodigio, un ammonimento. Sì perchè fu proprio stupore, spesso tendente a sdegno, che quest’opera provocò nel 1907, in chi la vedeva. E tra gli altri è importante ricordare lo sprezzo del critico Louis Vauxelles il quale, nel 1908, scrivendo di ‘bizzarries cubistes’, andò a definire quel nascente movimento: il cubismo.
Les demoiselles d’Avignon e Henri Matisse
Il primo nome che ci aiuterà a penetrare al dentro dell’opera è quello del celebre artista e amico di Picasso Henri Matisse. Egli sembra avere un ruolo chiave nell’esperienza artistica del cubismo in genere (aveva descritto alcune tele di Georges Braque come composte da “piccoli cubi”), ma anche nell’elaborazione de Les Demoiselles d’Avignon. L’artista infatti aveva acquistato una tela di Cézanne raffigurante tre bagnanti e, Picasso, sicuramente ebbe modo di osservarla e poterla studiare. Il tema delle bagnanti, soggetto classico per la raffigurazione di nudi senza la generazione di scandali e clamori, era allora molto praticato.
Trois baigneuses – three bathers, 1879-1882 Canvas, 53 x 55 cm La classicità e Les demoiselles d’Avignon
Sembra che Picasso partì proprio da qui per l’elaborazione della sua tela. Ne sono sintomo e segnale la nudità dei corpi e la similarità delle pose di due tra le cinque donne raffigurate. Si noti, tra l’altro, anche il forte richiamo alla classicità, alla Venere di Milo, o al prigione michelangiolesco. Ma Picasso riprende dall’iconografia delle bagnanti anche il drappo che scende lateralmente e che, la prima donna pare scansare con entrambe le mani per entrar nel dipinto.
Dunque un tema già trattato in pittura e non poco. Solo che Picasso lo decontestualizza, traendolo fuori dalla sua aurea innocua e antica e facendo di quei cinque corpi, che dai bozzetti pare dovessero essere accompagnati da due uomini, delle prostitute di uno dei più celebri bordelli (il d’Avignon appunto) di Barcellona. Picasso, come molti degli artisti a lui contemporanei, ritrae la società del suo tempo, ne coglie le contraddizioni e ne carpisce gli umori.
Picasso e la scultura africana
Sempre a Matisse, e certamente alla temperie culturale che pervadeva la Parigi di inizio Novecento, è collegata la fascinazione da parte di Picasso per la scultura africana. Max Jacob ricorda che Picasso scoprì le prime sculture proprio nell’atelier di Matisse e che, il giorno dopo averle vedute iniziò a realizzare alcuni disegni di teste con un solo occhio. L’arte tribale africana, con le sue linee schematiche e geometriche entra anche nelle Demoiselles e in numerose altre opere dello stesso periodo. Maschere, acconciature, tagli, colori.
Cézanne e Les demoiselle d’Avignon
Cézanne è il secondo nome, già in parte citato, che ci permetterà di comprendere gli studi di Picasso su quest’opera. Partiamo da una delle citazioni più celebri che illustra la volontà dell’arte di Cezanne:
«Bisogna trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono».
CézanneUna sorta di natura geometrizzata, comprensibile e quindi sintetizzabile in forme semplici. Questo percepiamo nelle tele di Cezanne, e in parte lo osserviamo anche nelle opere cubiste, dove però, avviene un ulteriore passaggio. Un passo dettato dalla volontà di comprendere a fondo la realtà, tralasciando il visibile, scomponendola e riportandola sulla tela mostrandone tutte le facce. Non più dunque un pittore che osserva e ritrae un mondo composto di solidi, bensì un artista che gira attorno alla realtà la comprende nel complesso e tenta di restituirlo per intero in barba alle regole della verosimiglianza e del naturalismo.
«Il cubismo ha obiettivi plastici. Non lo consideriamo solo uno strumento per esprimere ciò che percepiamo con l’occhio e con la mente, sfruttando tutte le possibilità che appartengono ai requisiti essenziali del disegno e del colore. Ciò è stato per noi una fonte di gioie inaspettate, una fonte di scoperte»
Pablo PicassoNel dipinto vi è infatti una pluralità di prospettive e punti di vista, una compresenza che fa sì che non venga più percepito come una finestra che dà su un bordello, bensì come uno studio, umano e scientifico, nella sua frammentazione di ornato bidimensionale.
E infine…Albert Einstein e Les demoiselles d’Avignon.
Albert Einstein L’ultimo nome è quello di Albert Einstein. Non certo perchè i due si conoscessero, ma per una profonda casualità entrambi iniziarono a percepire e comprendere l’importanza della variabile tempo all’interno dei propri studi. Il tempo viene considerato in qualità di quarta dimensione, nella scienza (con un articolo del 1905 nella rivista «Annalen der Physik») come nell’arte. Picasso e il cubismo, in altre parole, non rappresentano l’istante, bensì l’evoluzione della loro conoscenza del reale, tanti momenti di studio, di visione e di comprensione, restituendo allo spettatore un’esperienza (non un immagine) della realtà.
Le cinque donne e la natura morta
Ecco allora le cinque cinque donne in pose differenti. Dalla figura rappresentata di profilo sulla sinistra, che richiama alla mente i profili egizi, lo sguardo passa alle pose statuarie delle due figure centrali per poi posarsi sulle due ultime donne africanamente ‘trasfigurate’, l’una in piedi l’altra accovacciata.
Cinque prostitute non erotiche, donne che mostrano la contraddizione di un’epoca
E in questa lettura da sinistra a destra non si dimentichi la natura morta alla base del dipinto. Un simbolo che ci ricorda quanto l’uomo oggi come allora, non sia altro che parte di quella natura e forse, che sia l’uomo invece nell’errore a chiamare morta ciò che più d’ogni altra cosa è manifestazione di vita.
Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard Picasso e Apolinnaire: la poesia dedicata al pittore
A Picasso
Non ho più nemmeno compassione di me
E non so come esprimere il tormento del mio silenzio
Tutte le parole che avevo da dire si sono mutate in stelle
Un Icaro tenta di alzarsi fino ai miei occhi
E portatore di soli ardo al centro di due nebulose
Che cosa ho fatto alle bestie teologali dell’intelligenza
In passato i morti riapparvero per adorarmi
E io speravo la fine del mondo
Ma arriva la mia col sibilo d’un uragano
Ho avuto il coraggio di guardare indietro
I cadaveri dei miei giorni
Segnano la mia strada e li piango
Alcuni si putrefanno nelle chiese italiane
O in boschetti di limoni
Che fioriscono e insieme fruttificano
In ogni stagione
Altri giorni hanno pianto prima di morire in taverne
Dove fiori di fuoco rotavano
Negli occhi d’una mulatta inventrice della poesia
E le rose dell’elettricità s’aprono ancora
Nel giardino della mia memoria
Osservo il riposo domenicale
E lodo la pigriziaCome come ridurre
L’infinitamente piccola scienza
Che m’impongono i sensi
Uno è simile alle montagne al cielo
Alle città al mio amore
Somiglia alle stagioni
Vive decapitato la sua testa è il sole
E la luna il suo collo mozzato
Vorrei provare un ardore infinito
Mostro del mio udito tu ruggisci e piangi
li tuono ti fa da chioma
E i tuoi artigli ripetono il canto degli uccelli
li tatto mostruoso m’ha penetrato m’avvelena
I miei occhi nuotano lontano da me
E gli astri intatti sono i miei àrbitri senza prova
La bestia dei fumi ha la testa fiorita
E il mostro più bello si desola
Nel suo sapore d’alloro
Alla svolta d’una via vidi dei marinai
Che a collo nudo ballavano al suono d’una fisarmonica
Ho regalato tutto al sole
Tutto meno la mia ombra
Le draghe le mercanzie le sirene mezzemorte
Sprofondavano nella bruma dell’orizzonte i trealberi
I venti spirarono coronati d’anemoni
O Vergine segno puro del terzo mese.Vedi anche…
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Le sette parole di Cristo sulla croce attraverso l’arte
Le sette parole di Cristo attraverso sette crocifissioni. Parole e opere per entrare al dentro della passione di Cristo, con gli accadimenti, i simboli e i personaggi chiave di questi momenti di croce.
I . «Padre, perdona loro, poiché non sanno quello che fanno».
Le prime parole di Cristo sulla croce non sono per sè, bensì per il Padre e per coloro che «non sanno ciò che fanno». In questo, sta tutta la drammaticità di un accadimento: l’uomo che non riconosce il Dio sceso in terra e lo crocifigge.
Poi scopriremo che sarà la croce, in realtà, a portare salvezza, ma poi. Ora è tragedia.
Siamo ad Assisi, sul finire del Duecento quando Cimabue affresca sul transetto della Basilica di San Francesco questa concitata crocifissione. Separazioni e ferite lacerano la composizione di questo affresco. Gli angeli del padre, contrapposti agli uomini, uomini che tra loro sono marcatamente divisi in coloro che piangono e coloro che vogliono ciò che accade.
La cerniera che ancora una volta è chiamata a sanare, a guarire e unire queste lacerazioni è il corpo di Cristo, dimensionalmente più grande e lasciatosi andare come ‘biscione doloroso’. Una linea curva e conciliante in un mondo di linee nette e spezzate.
Cimabue, Crocifissione del transetto sinistro della Basilica di San Francesco ad Assisi. A questa drammaticità, contribuisce l’alterazione dei bianchi, relegando gli originari colori di questa crocifissione al passato. Ed è proprio lì, nel passato di ogni giorno, che la morte dovrebbe collocarsi.
San Francesco e il perdono
Un personaggio: Francesco. Egli, chino ai piedi della croce, la adora fino a baciarla. Dal «Padre» sussurrato o urlato di Cristo passiamo all’«altissimo onnipotente bon Signore» colui che solo può, come richiesto da Cristo, perdonare. Allora, scrive Francesco, «Lodato sii mio Signore, per quelli che perdonano in nome del tuo amore, e sopportano malattie e sofferenze».
La passione è ciò che unisce tutti in questo affresco ed è la sola strada stretta attraverso la quale passa il perdono.
II. «In verità, ti dico, oggi tu sarai con me in paradiso».
Passione è parola che ci accompagnerà e che ritroviamo manifesta anche nella splendida crocifissione del primo quarto del Cinquecento di Gaudenzio Ferrari nel Santuario della Madonna delle Grazie a Varallo.
Gaudenzio Ferrari, storie di Cristo, Varallo. Qui tra lo svolgersi ‘barocco’ dei sentimenti e tra i turbini di vesti e disperazione sorge un qualcosa di autentico. Certo, meraviglioso il corpo del Cristo, ma soffermiamoci sul volto. Pace, serenità, beatitudine. Non è il volto di un crocifisso, ma al contempo non è ancora il viso di un risorto.
Il pittore delinea qui i tratti di una promessa d’amore e di colui, l’amato, che a quella promessa s’affida e che, in quella promessa, muore.
Gaudenzio Ferrari, Corcifissione, Varallo. In questa verità, Gesù, proferisce parole di salvezza: «Hodie mecum eris in paradiso».
Hodie è un oggi eterno, circolare, che è pronunciato ogni qual volta ci si mette in ascolto di parole di amore. È l’incipit di una promessa che continuamente si rinnova e si nutre del mecum, con me. La passione torna ad essere destino comune e in particolare lo è, in quel momento, per i due ladroni. Sono infatti le due loro figure a sintetizzare le due strade che si aprono agli uomini: non porgere l’orecchio alla Parola oppure farlo e vivere secum nella promessa d’amore.
Due vie che portano l’una alla disperazione, a un’esistenza nella quale il male è giogo e spinge verso terra, l’altra conduce alla speranza, che tramuta la croce in beatitudine (sull’esempio di Cristo), e che apre al futuro sarai e al paradiso.
Le sette parole di Cristo attraverso l’arte!
III. «Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre.
«Padre» abbiamo sentito nella prima delle sette parole di Cristo, «madre» e «figlio» sentiamo ora.
Sembra non esserci crocifissione senza questi due personaggi comprimari: Maria e Giovanni. I primi due a piangere Cristo, i due che forse comprendono più d’ogni altro la passione di quell’uomo appeso alla croce. L’una perché madre carnale e viene su questa tavola di Van Der Weyden raffigurata come donna avvolta in un abito sovrabbondante, che pare un enorme lenzuolo, quasi un sudario, da cui emergono il volto piangente e il corpo in procinto di abbandonarsi e cedere al dolore insostenibile della croce. A lei è rivolto il viso del figlio, al quale non riesce a dare risposta. Come può una madre guardare gli occhi chiusi d’un figlio?
L’altro personaggio è Giovanni, il «discepolo che Gesù amava», colui che già sapeva perché annunciatogli nell’ultima cena. In quest’opera, Giovanni a mani levate volge lo sguardo alla croce creando una relazione circolare tra i personaggi.
Van der Weyden, Crocifissione. Eppure la vera relazione che viene qui a esplicitarsi è quella tra la Madonna e Giovanni, due figure che sono lì in funzione della croce, che fondano il loro rapporto sulla croce e scoprono di essere l’uno per l’altro madre e figlio: massima espressione dell’amore terreno.
In questo riconoscersi madri e figli ci si rivela avvolti delle stesse vesti di salvezza di Cristo, incorrotte, sopra le quali né lacrime né sangue possono posarsi.
IV. «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?»
Per comprendere al fondo queste parole e la scelta di quest’opera (la crocifissione del pittore tedesco Mattias Grünewald per l’altare di Issenheim) dobbiamo volgere gli occhi alla più piccola eppure potentissima figura umana qui raffigurata: la Maddalena. Una donna che nel suo dolore è quasi un tutt’uno con la terra, l’ovale sformato dalla contrizione, le mani intrecciate nella supplica ineffabile.
Mettiamoci nei suoi panni: sta assistendo alla visione di corpo teso e lacero, sul quale la corona di spine è la minima pena. Maddalena vive quella tragedia come inevitabilmente lo fa lo spettatore dell’opera.
Si vede un uomo morire in modo osceno e nulla si può fare per aiutarlo. Perché abbandonarlo così? Perché se è veramente figlio di Dio Egli, Dio, permette tutto ciò?
«Eli eli Lammà Sabactani»
«Dio mio dio mio perché mi hai abbandonato».Ecco, Cristo si fa la medesima domanda d’ogni uomo. È un punto di tangenza essenziale, che ci permette di partecipare a quel dolore, di sentirlo sulla nostra carne, di rivedere nelle nostre vite tante piccole crocifissioni, di scorgere, in coloro che attorno a noi soffrono, tanti crocifissi. Chiederci poi, Dio mio, ma come è possibile tutto ciò?
Nel corpo torto e snodato di questo Cristo che con la sua passione torce anche la croce e le anime delle figure sulla sinistra, non troviamo speranza. Non la troviamo apparentemente nemmeno in questa quarta parola.
La figura di Giovanni Battista nella crocifissione
Una figura infine, quella di Giovanni Battista, è irrealmente presente alla scena (poichè già morto). Giovanni non si piega e al suo fianco sono tracciate in rosso delle parole: «Egli deve crescere e io invece diminuire». Sono parole riferite alla nascita di Cristo, al sole che dal giorno vicino al solstizio di inverno è destinato a crescere.
Qui Cristo sembra e si sente più che mai diminuito.
Qui Cristo è prossimo al suo più grande splendore.
Qui, in queste parole del Battista, c’è l’esaltazione della croce: la debolezza della creatura abbandonata che cede alla grandezza del Creatore.
Le sette parole di Cristo attraverso l’arte!
V. «Ho sete»
Attraverso queste sette parole ci viene rivelata quella che dovrebbe essere la forma mentis del cristiano. Nelle prime parole Cristo pensa all’altro: a coloro che non comprendono eppure fanno, al vicino che chiede aiuto, alla madre e al fratello. Solo con la quarta parola egli inizia a far trapelare il pensiero sulla sua condizione di condannato a morte e ora, con questo «sitio» al suo essere uomo, a un suo bisogno. Gesù, nell’ultimo suo momento, chiede agli uomini ciò che loro avrebbero dovuto chiedere a lui, acqua viva.
Marc Chagall, Crocifissione bianca Chissà quale tipo di sete era quella di cui si racconta? chissà quale la fonte desiderata?
Nella celebre e incantevole Crocifissione bianca, Marc Chagall raffigura un Cristo solo in mezzo ad una moltitudine di vicende, accadimenti, simboli. Non vediamo ladroni, niente più vergine e Giovanni. A rendere la scena tragicamente dinamica è la contemporaneità di soprusi, stermini, violenze, tra villaggi e sinagoghe distrutte, memorie di pogrom, barche di profughi, madri disperate con i propri bambini.
Cristo e la sua croce sono soli. Nessuno porge l’orecchio. La scala poggiata al legno di quello strumento di morte è vuota. Cristo si rivolge questa volta non al ladrone, non alla madre, si rivolge all’uomo: «ho sete». Ma l’uomo non risponde o se lo fa, agisce schernendolo.
Un Cristo dimenticato che sperimenta la condizione di molti esclusi. La scala rimane lì, vuota, pronta ad essere salita in ogni momento per coloro che vorranno portare acqua (se questo chiede) a Cristo e ricevere indietro una pioggia d’acqua viva.
Cristo ha sete della sete d’ogni uomo.
VI. «Tutto è compiuto»
Ti ho amato di amore eterno
(cf. Ger 31, 3)In questa crocifissione del Museo del Prado di El Greco, parte di quello che doveva essere un complesso ciclo cristologico di cui questa, nemmeno a dirlo, doveva costituirne il centro, percepiamo uno sfaldamento della realtà, un momento in completo divenire. Cristo si sta letteralmente svuotando del suo sangue, dalle sue piaghe si aprono cascate. I tre angeli con la Maddalena fanno di tutto perché questo non giunga a terra. Il legno della croce è segno da rivoli rossi.
È l’attimo della liberazione! Cristo sussurra il «tutto è compiuto».
L’uomo è stato finalmente svuotato. L’uomo è pronto a perdere definitivamente la propria vita.
Percepiamo però in quest’opera una tensione, la stessa forza che è celata nelle parole di Cristo: Consummatum est. C’è l’impatto tremebondo del fallimento, della morte, dell’umana finitudine. È come se Cristo dicesse: “Non posso amarti di più, non posso darti altre prove del mio amore”.
Allo stesso tempo c’è, in chi timidamente difronte a tanta desolazione resiste nel credere, la verità del ‘tutto è compiuto’ come annunciato, e la speranza del ‘tutto è compiuto’ per un futuro che sarà, per un domani che metterà radici su questo oggi.
Il chicco di grano se non passa dalla morte, non porterà frutto.
Umano e spirituale, terra e cielo. Allora, con gli occhi fissi ai rivoli di morte che scendono dalla croce, ci lasciamo avvolgere in questa tensione che trepidamente accenna a salire.
VII. «Padre, nelle tue mani, consegno il mio spirito».
Il sole si oscurò, la cortina del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù gridando a gran voce disse: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito». Detto questo spirò.
Ed è silenzio. Si entra in un buio silenzioso. Fin qui tutto era cresciuto, la passione non faceva che salire in quella continua oscillazione tra umano e divino. Ora tutto è fermo, freddo, il mondo sta.
Diego Velazquez, Cristo crocifisso D’ora in avanti è un discendere sincopato e lento della passione che prelude alla deposizione, al sepolcro. È il finire della sofferenza umana di Cristo, non certo di quella della madre e dei discepoli, È il discendere e lo stare del corpo morto.
Se il ‘tutto è compiuto‘ ci interrogava sul futuro degli uomini, quest’ultima parola ci riporta ad una riflessione su Cristo uomo e Dio. Egli sperimenta il limite, il confine, l’instabilità, ciò che prima o poi qualunque vivente dovrà affrontare. Da un lato l’abbandono, dall’altro la fede.
Ecco perché il Cristo crocifisso di Velazquez. Si narra che il pittore, non soddisfatto di una parte del volto lo abbia coperto con la ciocca di capelli che scende dalla corona di spine. Questo è il particolare che forse più di ogni altro rende quest’opera perfetta.
Sul volto del Cristo di Velazquez troviamo a destra l’abbandono, a sinistra la fede: il mistero di una bellezza che percepiamo eppure non vediamo chiaramente.
In tutta quest’opera avvolta di tenebre eppure così pacata, si scopre infondo che abbandono e fede in Cristo coincidono. In questa coincidenza e consapevolezza il corpo inizia già a brillare della luce del Padre e delle sue opere. Gesù inizia a vivere del chiarore delle risurrezione.
Diego Velazquez, Cristo crocifisso
Felice Pasqua a tutti voi da Oltre l’arte
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Le Violon d’Ingres di Man Ray-PODCARD
Man Ray immortalò la sua Musa e Amante Kiki de Montparnasse in uno scatto che la ritrae seduta di schiena completamente nuda.
Di lei non vediamo le gambe e le braccia, quello che emerge del suo corpo è solo la curvatura delle spalle, il profilo dei fianchi e quello dei glutei.
Il volto è girato di tre quarti quasi a voler ammiccare all’osservatore.
Indossa solamente un paio di orecchini e un turbante.
Accessori che rievocano uno dei miti dell’erotismo occidentale nel XIX secolo, un soggetto caro alla storia dell’arte : l’odalisca.
Sul quel corpo Man Ray traccia due effe. E così improvvisamente Kiki, dalle forme tonde, morbide e desiderose, si trasforma in un violoncello, in uno strumento da suonare, da toccare e da possedere.
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L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp-PODCARD
Duchamp partì una cianografia, una cartolina tra le più dozzinali e scadenti in commercio, della più celebre opera di Leonardo da Vinci e vi disegnò sul volto baffi e pizzetto.
In calce scrisse l’acronimo L.H.O.O.Q. (Elle a chaud au cul) il quale suono corrisponde alla fase irriverente di «ella ha caldo al culo».
Un’operazione dissacrante che cela un messaggio più profondo della semplice provocazione. La scelta della Monna Lisa è una chiara critica al modello estetico promosso nel tardo ottocento, e alla contemporanea industria della divulgazione che aveva ormai svalutato la venerata icona leonardesca facendone una merce pronta al mero consumo.
Come ricorda Thierry De Duve in ARTEFATTO
vi devono essere quattro condizioni per FARE ARTE :
un referente («questo»), un enunciatore (ossia l’«artista» meglio ciò che rimane di esso) un destinatario («il pubblico») e infine un’istituzione , ovvero un «contesto» entro cui questo incontro accade.
Thierry De DuveIl merito di Duchamp è quello di aver insegnato che il ruolo dell’artista è soltanto una delle quattro componenti.
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La bagnante di Valpinçon di Ingres-PODCARD
Ingres invio la tela da Roma a Parigi per partecipare all’esposizione del Salon del 1808.
Il dipinto fu acquistato dal collezionista Leonard Valpinçon, da cui prese il nome: La bagnante di Valpincon. Divenne di proprietà del Louvre nel 1879.
Ingres ritrae una donna dalle morbide e sinuose forme, seduta di schiena con un turbante che avvolge i capelli bruni e la testa dolcemente rivolta verso destra, lasciandoci immaginare il volto della donna consegnandoci le chiavi di un profilo appena accennato.
La nudità, che appare mitigata dal porgersi di spalle, in realtà è qui enfatizzata.
Il nostro sguardo accarezza la figura, scivolando dolcemente dalla spalla illuminata, lungo il braccio appena piegato, per poi scendere alle gambe timidamente incrociate.
Un’ideale di bellezza classica dipinto in maniera magistrale nella sua estrema semplicità.
Ma una domanda sorge spontanea di che bodyshape parliamo…pera, mela o clessidra?