• arte,  attualità,  musei

    Maria Lai, Opere e parole

    « – Buongiorno – disse la volpe. – Buongiorno – rispose educatamente il piccolo principe che si girò, senza però scorgere nessuno. – Sono qui – disse la voce – sotto il melo – . – Chi sei? – chiese il piccolo principe. – Sono una volpe – disse la volpe. – Vieni a giocare con me – le propose il piccolo principe.»

    Non è un caso se in questo XXI capitolo del breve capolavoro che Il piccolo principe è, troviamo alcune delle parole care all’arte di Maria Lai: una donna nata nel 1919 sull’ ’asteroide’ sardo di Ulassai. Lei: una ricamatrice di sogni, una rammendatrice di racconti, una filatrice di relazioni.

    L’arte come gioco

    «Vieni a giocare con me» dice il piccolo principe alla volpe. Il gioco. Centrale nella crescita e nello sviluppo del bambino e spesso dimenticato dagli adulti. Per Maria Lai, come per Saint Exupéry, L’immaginazione e quindi il ludus non possono rimanere prerogativa unica dell’infanzia, bensì si devono far strada attraverso l’arte o la letteratura e invadere gli osservatori e i lettori. Così arte e letteratura divengono un luogo, un gioco, in cui familiarizzare e crescere. I luoghi dell’arte a portata di mano (2002) costituiscono allora l’approdo di questa concezione. L’opera è composta da carte destinate a passare di mano in mano con su scritte frasi o parole che interrogano, spiegano, oppongono, affermano. Sono i luoghi e le persone che fruiscono dell’opera a dare all’opera vita e…viceversa. 

    I luoghi dell’arte a portata di mano

    ‘AddomesticARTE’ – Legarsi alla Montagna

    Ma continua poi la volpe…

    « –Sono così triste…Non posso giocare con te – rispose la volpe – non sono addomesticata. – Ah! Scusami – fece il piccolo principe. Ma dopo averci riflettuto su, aggiunse: – Che significa “addomesticare”-. – Significa una cosa che è stata purtroppo dimenticata, – rispose la volpe – significa Creare dei legami…-»

    Addomesticare, non è termine che usava Lai, ma possiamo trovare nelle sue opere quello che Saint Exupery intendeva per ‘addomesticare’: l’istanza, la volontà e il desiderio di ‘creare legami’. Tutto questo lo scoviamo nell’arte di Maria Lai e lo percepiamo tanto forte come probabilmente  mai nell’arte del Novecento. Siamo, ad esempio, nel 1981 quando viene realizzato ciò che non può dirsi opera e nemmeno performance, (poichè non ci sono attori né un copione), insomma un qualcosa che venne poi definito come il primo esempio italiano di ‘arte relazionale’: Legarsi alla montagna

    Lai propose: «leghiamo con un nastro una casa all’altra del proprio vicino, come quando si ha paura e si stringe la mano. Questa sarà l’opera». Più di 25 km di nastro legarono insieme l’8 settembre del 1981 l’intera Ulassai. Il nastro arrivò fin sulla montagna, riportando l’opera alle origini leggendarie da cui quest’idea nacque. Vi era infatti nella cittadina la leggenda di una bimba, la quale per portare cibo ad alcuni pastori, si rifugiò in una grotta e si salvò da una frana poichè vide e seguì un nastro azzurro che svolazzava di fuori. Legarsi alla montagna (come ogni opera d’arte) aveva però un codice ben preciso in quanto non tutte le relazioni sono uguali. È per questo che, qualora vi fosse discordia tra le famiglie, il nastro passava diritto, in caso di serenità o amicizia un nodo o un fiocco, in caso di amore occorreva intrecciarvi un pane.

    L’arte e il tempo: silenzio e attenzione – Le fiabe cucite

    «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Si riforniscono dai mercanti di cose pronte all’uso. Siccome non ci sono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se vuoi un amico, addomestica me!»

    Il tempo per conoscere. Il creare relazioni come il creare arte necessita di tempo. Ma come trovare e destinare tempo a qualcosa che di tempo ne richiede a bizzeffe, quando di là dagli schermi tutto è venduto come pronto? I nostri minuti, le nostre ore sono oggi più che mai materia di scambio, prodotto. Servono in tutto ciò due atteggiamenti amati da Lai: silenzio e attenzione. Imprescindibili per la composizione e la fruizione delle sue opere e in particolare per il processo che dà vita Fiabe cucite. Un’attenzione sinestetica, poichè quella fiaba è tessuta su tela, pagina dopo pagina. Un silenzio assordante, quello dell’arte del cucito, che è per Lai un movimento attento e tacito d’ago e filo per collegare punti, tracciando storie e facendo racconti.

    Tenendo per mano il Sole, Tenendo per mano l’ombra, Curiosape sono le fiabe cucite più celebri. Libri creati dall’artista con tessuti riusati. Libri che nascono quasi dal nulla, dalla pazienza del filare, del tessere e del cucire. Il filo è segno di un cammino che unisce luoghi e intenzioni: tessere diviene allora un processo per tenere per mano sole e ombra, un momento di relazione tra opposti, tra diversi. Scrive la poetessa Antonella Anedda: «Il suo è un concettualismo lirico dove le ragioni della ragione non dimenticano quelle del cuore». Un libro cucito non si legge, sta e richiede attenzione e silenzio. Non per forza comprensione, attenzione. 

    “Non importa se non capisci, segui il ritmo” disse Salvatore Cambosu a Maria Lai donandole un libro di poesia. Non è così la vita? non siamo chiamati a seguirne il ritmo? a percepirne l’ordito e inabissarci con i fili che ne tracciano il segno?

    Per comprendere a fondo quest’arte è allora necessario – ve lo dico in maniera sgrammaticata e bambinesca – attenzionare e silenziare o silenziarsi. Attenzionare perché non basta fare attenzione, bisognerebbe vivere in attenzione. Silenziare e silenziarci, non per ignorare ciò che si ha attorno, bensì per meglio comprendere le voci di bambini che sono in noi.

    L’arte ci prende per mano

    Ultimo step.

    «Per esempio, se tu vieni sempre alle quattro del pomeriggio, alle tre io già comincerò ad essere felice. Più si avvicinerà il momento, più mi sentirò felice. […] Ma se tu vieni quando ti pare, non saprò mai quando preparare il mio cuore… c’è bisogno di riti. – Che cos’è un rito? – disse il piccolo principe. – È una cosa purtroppo dimenticata – rispose la volpe. È ciò che fa di un giorno un giorno differente dagli altri, una certa ora, un’ora differente dalle altre ore».

    Quella di Maria Lai è un’arte quotidiana e frugale, in qualche modo rituale. Ed è attraverso questa ritualità che dona nuova vita alle cose.

    «Lai è una Parca che non taglia il filo, è una filatrice ma non una Accabbadora, il suo lavoro non smette di germogliare».

    Il rito mette radici nell’attenzione e nel silenzio, il rito si nutre di relazione. Nel 2003 Maria Lai realizza L’arte ci prende per mano. Un’opera costituita da una lavagna con su scritto in bella grafia la frase da cui l’opera prende il titolo, esposta nella piazza delle scuole del paese. 

    L’arte ci prende per mano, 2003, Ulassai

    Ecco l’arte prende per mano ciascuno, come una maestra fa con i bambini impauriti il primo giorno di scuola, si avvicina e ci porge la mano. Eppure, se al bambino come dice Lai «bastano i giochi, le fiabe,  il sillabario, e il ritmo; a [noi] aduli alle amarezze del mondo» e a questi tempi incerti, cosa occorre?

    Lai, la sua arte, propone nel suo essere una via che abbiamo visto passa per la creazione di legami (addomesticare), per il silenziarsi e l’attenzionare affinchè si riscoprano i ritmi e si possa tornare a sillabare, per la riscoperta dei riti per non rimanere (come direbbe Deandré) «più semplicemente dove un attimo vale un altro».

    E infine lungo questa via percepire un senso di responsabilità nella relazione nei confronti dell’altro, poichè come diceva Lai «L’arte è lo spazio di chi non occupa spazio nel mondo».

    «Si diventa per sempre responsabili di chi si addomestica. Tu sei responsabile della la tua rosa… – Io sono responsabile della mia rosa… ripeteva il piccolo principe per tenerlo a mente»

  • arte,  attualità,  Caravaggio,  musei

    Il riposo durante la fuga in Egitto di Michelangelo Merisi da Caravaggio

    Iscriviti al canale Youtube

    Oltre l’arte

    Ogni martedì un breve video, una pillola d’arte e di bellezza!

    Il racconto di oggi inizia nell’incertezza. Nella stessa incertezza che è propria di alcuni della vita e delle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un po’ come se il chiaroscuro pervicace delle sue tele si riverberasse, aspro e iconico, sulla persona e sull’artista. Questa tela, Il riposo durante la fuga in Egitto, è una delle prime opere a noi note del giovane pittore lombardo giunto a Roma. Fu probabilmente commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini (come sostiene Mina Gregori) e, di lì a pochi anni, entrò in possesso dell’accentratrice donna Olimpia Maidalchini (ve la ricordate? ne abbiamo parlato nel video dedicato alla Fontana dei Quattro fiumi del Bernini). Oggi è infatti possibile ammirarla a Roma presso la Galleria Doria Pamphili.

    Caravaggio giunse a Roma dopo aver percorso quelle che Roberto Longhi definì le ‘vie dei Campi’, conoscendo e facendo esperienza dell’arte dei fratelli Campi. Sopprattutto però, arricchendosi alla scuola dell’arte lombarda del Lotto, del Moretto, del Moroni e del Savoldo.

    Solo ripercorrendo queste ‘vie’ possiamo contestualizzare quella che altrimenti potrebbe sembrare una figura artistica estranea alla scena della pittura a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Così si avrà a comprendere un Caravaggio figlio del suo tempo, e non del nostro.

    Ma veniamo finalmente all’opera: una tela in formato orizzontale, seppure non troppo, la cui lettura la facciamo partire dal basso, dalla terra.

    Vediamo dapprima un selciato sulla destra coperto di erbe e, spostandoci verso sinistra, osserviamo il disporsi, forse un po’ troppo compendiario, di sassi e foglie secche. È tra questi oggetti che poggiano i piedi dei prtagonisti, sapientemente alternati alle vesti. piedi e panneggi, panneggi e piedi e… fiaschetta! immancabile! 

    E dai panneggi si sale alle ginocchia stanche del San Giuseppe, attorcigliandoci anche noi come il panno bianco attorno alla sinuosa figura stante dell’angelo e abbandonandoci poi al manto soffice della Vergine, anch’esso perso nella natura verdeggiante e rigogliosa.

    Saliamo ancora e in quest’ambiente bucolico, che ben poco ha del paesaggio egiziano e pare piuttosto uno scorcio di campagna romana: la Vergine si è assopita. Sfinita dal viaggio e nella continua cura del figlio, il figlio abbraccia e avvolge. Rimane un profilo di bambino di dolcezza indicibile e un volto in scorcio magistrale, che riporta alla mente la figura della Maddalena penitente. Quest’ultima è un’opera realizzata nello stesso anno (1597) e plausibilmente per lo stesso committente. Inoltre, dietro le vesti e il personaggio di Maria di Maddalena, si cela in entrambi i casi la giovane modella Anna Bianchini.

    Procedendo ancora verso sinistra la scena è interrotta da una nota di naturalismo puntuale: le ali rondine dell’angelo. Ali che Caravaggio riprese dal vero, dai modelli usati nelle rappresentazioni dell’epoca e, forse, dalla sua stessa memoria e dalle immagini degli angeli del Lotto nella pala di San Bernardino in Pignolo.

    L’angelo sembra suonare una pausa, con il volto e l’archetto leggermente sollevati dal violino. Lo sguardo è fisso sullo spartito, leggibile e riconoscibile. Si tratta di un brano del musicista fiammingo Noel Bauldewijn composto nel 1519 e ispirato al Cantico dei Cantici. Maria è qui madre e sposa.

    Riposo durante la fuga in Egitto, particolare

    Ed eccoci a San Giuseppe ‘leggio umano’: gli angeli di Caravaggio sembrano non avere memoria e necessitano sovente di leggii e spartiti. Guardando con attenzione ci accorgiamo che lo stesso modello fu prima San Matteo e Abramo e che siede ora su un sacco più volte usato dal Caravaggio per allestire le scene. Questi sono particolari che rendono Caravaggio vivo e tangibile. Che ci mostrano il dietro le quinte e un pittore che sceglie i suoi modelli, che li fa posare utilizzando oggetti di scena e, che in questo caso, ‘fa bosco’ nel suo studio.

    Il San Giuseppe è in questo dipinto estasiato dalla grazia del giovane angelo. C’è grazia di certo nella figura, ma grazia è in quello che egli suona e nelle promesse che questo brano porta con sé:

    Quanto sei bella e quanto sei graziosa, Carissima mia, in mezzo alle delizie. La tua statura somiglia a una palma e a grappoli somigliano i tuoi seni. Il tuo capo è simile al monte Carmelo […] Una torre d’avorio è il collo tuo.[…] Vediamo se la vigna è tutta in fiore, se i fiori partoriscono la frutta, se sono tutti in fiore i melograni. I seni miei in quel luogo ti darò.

    Quanto è umano questo Giuseppe che, non potendo gesticolare con le mani, lo fa coi piedi, regalandoci un brano di pittura eterno. 

    Giungendo nell’angolo in alto a sinistra ci accorgiamo che è il momento dell’asino (immancabile nell’iconografia della Fuga in Egitto). Costretto anche lui nel quadro fa da fondale ‘peloso’ al San Giuseppe, mentre spostandoci verso destra, diviene anch’esso protagonista col suo occhione diretto dritto verso lo spettatore. Di qui i capelli scompigliati del giovane, al quale Caravaggio ci ha abituato, e la natura, di querce e graminacee, fino a giù sulla destra dove si apre un paesaggio collinare. Il pittore dà all’intera composizione una collocazione reale e plausibile, un particolare nient’affatto scontato nella raffigurazione di una scena biblica. 

    Caravaggio e il suo committente scelsero di rappresentare il più tragico episodio dell’infanzia di Gesù mettendo in risalto la quotidianità e la familiarità delle relazioni. E, in questa quotidianità, dare spazio e valore a quell’unguento profumato che la musica, l’arte, la poesia possono essere nella vita di ciascuno.

    E, se l’angelo stesse veramente suonando un pausa, potremmo trarre da qui un vivido appiglio. Dovremmo cambiare prospettiva e vivere le pause delle nostre vite, questa grande pausa che il Covid sembra essere e che tutti accomuna, come pause ‘da suonare’ in attesa e con il fine della musica. Pause da suonare anelando al momento in cui l’archetto accarezzerà di nuovo le corde di quel violino. La mano, come sempre ci insegna Caravaggio, è la nostra!

  • arte,  musei,  rinascimento

    Raffaello, il periodo fiorentino

    Raffaello arriva nel 1504 a Firenze, ed è rivoluzione!

    Di certo l’esperienza del giovane urbinate, che già negli anni precedenti lo aveva portato a viaggiare per l’appennino muovendosi tra Umbria, Marche e Toscana, probabilmente già prima di quel fatidico anno gli permise di mettere il naso sugli affari artistici fiorentini. È con una lettera datata primo ottobre 1504 e firmata da Giovanna Feltria, sorella del Duca d’Urbino, che Raffaello si presentò al gonfaloniere della Repubblica fiorentina Pier Soderini. Costui aveva speso gran mole di denari pubblici per la realizzazione del David (da esporre nella piazza del potere politico cittadino) e per la decorazione della sala del Gran Consiglio. Due lavori di enorme valore simbolico per i quali si era affidato ad artisti quali Michelangelo e Leonardo.

    Questa lettera tuttavia non procurò a Raffaello vere e proprie commissioni, ma aprì ai suoi occhi assetati di immagini, la visita delle botteghe dei due grandi maestri che animavano la scena artistica. Raffaello vide dunque i progetti leonardiane e i capolavori michelangioleschi, plasmando pian piano il suo disegno e aprendosi a nuovi modi di dipingere. 

    C’è un evoluzione, c’è un captare continuo di immagini e forme che rende le opere si questo periodo fiorentino, se lette conseguentemente, una sorta di climax, che permette di cogliere visivamente e materialmente la febbrile volontà di crescita di un giovane.

    Le opere dei primi e il confronto con Leonardo

    Vediamo le più celebri e prendiamo come punto di riferimento iniziale la Madonna Conestabile (1503-1504) ancora fortemente legata nei modi e ai modelli perugineschi.

    Raffaello Sanzio, Madonna Constable, 1503-1504.
    Raffaello Sanzio, Madonna Terranova, 1504-1505.

    Già notiamo dei cambiamenti nella Madonna Terranova, nella quale osserviamo una maggior naturalezza percependo i sentimenti delle figure ritratte. Guardate come è diverso lo sfumato, cogliete la profondità di quella mano in scorcio figlia delle mani del Masaccio e di Leonardo. Il confronto inoltre sia per cronologia che per la forma dell’opera ci porta a pensare al Tondo Doni michelangiolesco, opera sulla quale Raffaello approfondirà la riflessione, ma che in parte già riprende per la balaustra sullo sfondo e per la sapiente separazione dei piani. Non dimenticandoci che è proprio in questi anni che Raffaello realizzò i ritratti di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, committenti del tondo. Ritratti nei quali il modello leonardesco è manifesto e in cui il giovane sceglie di approfondire l’intensità psicologica.

    È con la Madonna del Cardellino (1505-1506) e con la Madonna del Belvedere (1505-1506) che Raffaello si concentra sullo studio della composizione e della concatenazione delle figure, conferendo loro una inedita delicatezza di forme. Qui, ancor di più notiamo la resa della prospettiva aerea, e dell’indefinitezza dell’orizzonte. 

    La Madonna del Granduca e la Sacra famiglia Canigiani

    È questo per Raffaello un eccellente momento di prova per sperimentare quante più variazioni sul medesimo tema della Madonna con il Bambino. Egli amplia e migliora composizioni, cogliendo a man bassa dalla ricchezza d’immagini di elevata qualità che Firenze sapeva offrire, ma avendo anche grande memoria. Già Roberto Longhi colse l’importanza che ebbe la lunetta del San Domenico di Urbino di Luca Della Robbia nell’elaborazione della Madonna del Granduca (1506 – 1507). Si noti la posizione delle mani, che sole insieme al volto della Vergine e del Bambino, smontano la ieraticità delle pose, avvicinando l’opera allo spettatore. 

    È con la Madonna Bridgewater che Raffaello si concentra sulla la plasticità corporea, avendo come modello il Michelangelo giovane scultore del Tondo Taddei. Sicuramente l’opera nella quale Raffaello dimostra di aver pienamente compreso la lezione del più anziano pittore è la Sacra Famiglia Canigiani. In quest’opera realizzata nel 1507 per Domenico Canegiani (cognato di Lorenzo Nasi) ritroviamo un sunto perfetto del livello eccezionale che Raffaello ha raggiunto.

    Raffaello Sanzio, Sacra famiglia Canigiani, 1507.

    Non solo Leonardo e Michelangelo…

    Non solo Leonardo e Michelangelo tuttavia, Firenze ha una storia, e ancora nel 1507-1508 Raffaello comprende la grandezza dei modelli passati. Nella Madonna Tempi 1507 – 1508 rivediamo il Donatello della Madonna Pazzi e del Miracolo del Neonato nell’Altare del Santo. Stessa posa, rivista con l’intimità e il sentimento: Raffaello non aveva mai abbandonato Donatello e la scultura quattrocentesca. 

    Raffaello Sanzio, Madonna Tempi, 1507-1508

    Queste opere, frutto di una devozione privata, sono concepite da Raffaello come unicum. Sebbene il tema sia lo stesso egli non ripercorre la strada dei modelli e dei patroni, ma in un brainstorming di forme e linee dà vita continua a nuove figure. 

    I committenti delle ‘Madonne fiorentine’.

    Se la lettera a Pier Soderini non portò probabilmente alle committenze attese, fu l’incontro e l’amicizia con Taddeo Taddei che invece generò frutti numerosi e di pregiata bellezza. A lui, di cui fu ospite, come ricorda il Vasari, donò due sue opere: la Madonna Terranova e la Madonna del Prato o del Belvedere.

    È proprio forse in casa di suddetto Taddeo (Il Vasari scrive: “gli fu dato ricetto nella casa di Taddeo Taddei, e vi fu onorato molto, atteso che Taddeo era inclinato da natura a far carezze a tali ingegni”) che Raffaello fece la conoscenza e strinse amicizia con l’umanista veneziano Pietro Bembo. Quest’ultimo, coetaneo di Taddeo, fu parte attiva di quella cerchia di committenti filo-medicei i quali furono i veri fruitori delle ‘Madonne fiorentine’. 

    La cosa sconvolgente non è solo il fatto che Raffaello realizzi queste opere all’età di circa ventidue anni, ma che gli stessi suoi committenti Lorenzo Nasi, Domenico Canigiani fossero all’epoca ventenni o poco più. 

    La Madonna del baldacchino e la partenza per Roma

    Raffaello dunque, presi i migliori aspetti della Firenze dell’epoca, dei grandi maestri della scultura quattrocentesca, di Leonardo e di Michelangelo, viene chiamato nel 1508 a Roma. E come Leonardo chiamato per il Nord lasciò incompiuta l’adorazione dei Magi, così Raffaello lasciò una delle poche commissioni pubbliche che in quella città aveva ricevuto: La Madonna del Baldacchino

    Raffaello Sanzio, Madonna del baldacchino, 1508.

    Il Condivi, amico e biografo di Michelangelo, in parte quella che ho definito all’inizio di questo excursus ‘rivoluzione’. Egli scrisse, non senza ironia, che Raffaello «in imitare era mirabile». Imitare, esatto, non copiare: in ciò è la grandezza dell’arte tutta.

  • arte,  attualità

    William Turner, il pittore della luce

    Oggi vi racconto la storia di un ragazzo londinese che amava realizzare degli acquerelli e di suo padre che aveva deciso di esporre quelle opere su carta nella vetrina della sua bottega. Egli era un paziente fabbricante e venditore di parrucche, che immagine! Acquerelli e parrucche.

    È di un padre che credette in suo figlio e si affidò alla sua arte, un padre che continuava a dire: “William farà il pittore!”. 

    Londra fine del Settecento, quel giovanotto era William Mallord Turner.

    I passi di Turner

    Cerchiamo di tracciare brevemente il cammino a tappe che Turner compì nella sua vita e che lo portò alla scoperta e all’interiorizzazione della luce, fino alla sua tela più celebre Luce e colore appunto. È fondamentale comprendere la forza dell’esperienza di questo artista, il quale ridonò dignità e vita piena al paesaggio e che, in qualche modo, aprì la strada all’impressionismo. 

    Le prime opere di Turner

    Già studente presso la Royal Academy of Art nel 1796, a 21 anni, realizza il suo primo olio su tela: Pescatori in mare. L’opera è un notturno che lascia percepire le raffiche di vento e l’instabilità del moto ondoso. È un po’ proprio come quei pescatori che Turner si spingeva ogni anno oltre i confini della sua conoscenza, visitando luoghi e compiendo viaggi di scoperta, accatastando appunti, disegni bozzetti e schizzi. Occhi famelici erano quelli di Turner, che registravano sfumature e variazioni luministiche e che le rigettavano poi sulla tela, quanto più possibile senza filtri.

    William Turner, Pescatori in mare, 1796

    L’Italia di Turner

    Nel 1819 Turner decise di venire in Italia, un must, una tappa dovuta nei Grand Tour di quel secolo e per la formazione degli artisti. È in questo contesto, da Nord a Sud, dalla laguna veneziana fino al golfo di Napoli, che Turner scopre la luce mediterranea, incastonando su carte e tele colori. Ebbe pochi mesi per cogliere le meraviglie luministiche, un fatto che dimostra quanto l’animo di Turner fosso estremamente sensibile e preparato ad osservare ed accogliere.

    Un artista veneziano a noi contemporaneo, Davide Battistin, esprime nelle sue tele la medesima attenzione di Turner nel proporre varianti e variazioni infinite di una Venezia impastata di acqua e luce. Turner comprese le potenzialità di quelle luci in pochi mesi, realizzando opere di incantevole bellezza.

    I cieli di Turner

    Nel 1828-29 torna in Italia ed è un viaggio ancora una volta decisivo per l’elaborazione di nuove vie della sua arte che man mano si evolve, spaziando dall’arte di soggetto storico a quella di soggetto religioso, ma mai tralasciando il dato atmosferico, che sempre più prende il sopravvento. 

    Sono degli ultimi periodi le opere che più rivelano la grandezza di questo artista, e che meglio permettono di leggere il percorso alla luce di un’attenzione minuziosa alla composizione che seppure non risulti immediatamente percepibile c’è ed è conditio centrale dell’opera. Nato come paesaggista Turner si esercita a fondo sulla prospettiva, lasciando sempre più prevaricare la luce. Quella luce che non ha confini, e che secondo la Teoria di Goethe è una luce che plasma la realtà, che la svincola dalle regole. Turner riesce a catturare la luce e riproporla sulla tela accostando ai pigmenti le emozioni che essa ha suscitato. 

    Tra queste tele una delle più celebri è certamente La valorosa Temeraire, realizzata nel 1839. Qui, seppure valorosa, la Temeraire sarà sempre in secondo piano rispetto al tramonto che si svolge all’orizzonte! Qui, più che mai, emerge distinta e netta la distanza dalle marine dei predecessori e contemporanei Whitcombe, Swaine e Pocock.

    Luce e Colore. La teoria di Goethe

    Ma è con l’opera Luce e colore, la teoria di Goethe, realizzata nel 1843, che Turner giunge ad un livello altissimo di astrazione, nella quale i colori tornano ad essere luce e al tempo stesso materia. In un dipinto di piccole dimensioni l’artista riesce a conglomerare la forza incommensurabile della natura e, attraverso un movimento centrifugo, farla percepire allo spettatore. 

    William Turner, Light and Colour (Goethe’s Theory), 1843

    L’universo è caotico e Turner ce lo mostra nella composizione delle sue opere. Il colore è secondo la teoria di Goethe risultato dell’interazione tra la luce e l’oscurità e Turner ce lo fa comprendere nelle sue tele. Insomma questo pittore ci può dare un suggerimento su come guardare al reale, dimostrandoci che la luce può in ogni caso plasmare la realtà, un po’ come la determinazione: la sua determinazione da bambino nel voler diventare un pittore. 

  • arte,  attualità,  medioevo

    Il dono del mantello, Giotto e (papa) Francesco.

    Ieri, oggi e domani.

    Tre momenti che trovano in Assisi un punto di congiunzione, in particolar modo in questi giorni piovosi di fine settembre e inizio ottobre. Ieri: Giotto nel ciclo pittorico dedicato alla vita di San Francesco nella sua basilica. Oggi: l’istallazione Eldorato realizzata da Giovanni de Gara sulla soglia della Specialis Ecclesia. Domani: La firma con la quale papa Francesco, venendo ad Assisi il 3 ottobre, emanerà la sua enciclica Fratelli tutti. Non una cosa a caso vediamo perchè…

    La commissione a Giotto

    Siamo alle soglie del Trecento (1297 ca.) , quando viene commissionato a Giotto e alla sua bottega uno dei più importanti lavori, in termini pratici e simbolici, di quell’epoca: la decorazione delle pareti della navata della basilica papale di San Francesco. Il programma iconografico doveva narrare per immagini e parole le storie della vita terrena e i miracoli dell’alter Christus, di colui che rinnovò la spiritualità cristiana facendosi minor. Il ciclo pittorico è inserito in una struttura prospettica di porticato che già Cimabue utilizzò nel transetto della medesima basilica, ma che Giotto innovò amplificandone la profondità e facendo convergere il punto di fuga al centro delle scene centrali di ciascuna campata. Tre o quattro riquadri per campata più due ai lati del portale, per un totale di ventotto scene.

    Il Dono del mantello

    La prima ad essere dipinta, sebbene sia la seconda in ordine di lettura del ciclo che diparte dall’altare e all’altare torna, è la celebre azione del Dono del mantello. Un episodio narrato nella Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio (testo bio-agiografico preso come riferimento per l’intero ciclo pittorico): 

    «Quando il beato Francesco si incontrò con un cavaliere, nobile ma povero e malvestito, dalla cui indigenza mosso a compassione per affettuosa pietà, quello subito spogliatosi, rivestì» (Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior 1, 2)

    Descrizione dell’affresco

    Giotto, Il dono del mantello, Basilica di San Francesco

    I personaggi sono collocati in primo piano, su una sorta di proscenio, quasi irrealmente sospesi in una composizione spaziale che nelle scene successive andrà assumendo maggior rigore e respiro. Al centro Francesco, ancora vestito di un prezioso blu (oggi sbiadito), sta donando il suo mantello ad un uomo. Non a un lebbroso, non a un mendicante. Bensì a un nobile caduto in disgrazia, questo raccontano le fonti e questo si evince da copricapo soppannato in vaio e dal rosso delle vesti. Sulla sinistra protagonista è un cavallo, un tempo bianco lucente, un colore alteratosi come i bianchi del ciclo di Cimabue a pochi passi da lì.

    In secondo piano, ancorati all’immagine bizantino-medievale della raffigurazione ‘a gradoni’ e privi di prospettiva, dominano due colli. L’uno (sulla sinistra) sul quale campeggia la città di Assisi; l’altro, in posizione opposta, con probabilmente raffigurata l’Abbazia di San Benedetto al Monte Subasio. Quest’ultimo un luogo di grande valore storico-artistico, che oggi purtroppo versa in stato di abbandono. I pochi alberi infine sono segnacolo dei boschi che dominavano allora questi colli. Il medioevo non si dilunga nella narrazione e rappresenta, a volte, la parte per il tutto: l’albero per il bosco. 

    La composizione e la testa ‘decentrata’

    Ma a livello compositivo il focus dell’opera è l’aureola di Francesco, sulla quale convergono le diagonali del calare dei colli. La testa del giovane però sembra fuggire da questo centro, perché è come se alla centralità statica preferisse il decentramento dell’azione, dando origine ad una serie di linee e movimenti che conferiscono naturalezza a gesti e sguardi. 

    Ad accentuare il movimento è anche la linea curva del collo del cavallo alle spalle di Francesco. Un animale status simbol e allusione al suo desiderato futuro da cavaliere, ripreso anche nella scena successiva del Sogno delle armi. Ma perché ritrarre questa scena e non l’abbraccio con il lebbroso, un momento centrale nella conversione del santo e da lui citato anche nel Testamento? 

    Di certo più si confaceva un soggetto simile ad una basilica che era vocata ad accogliere il papa e personaggi importanti e tuttavia agli spettatori istruiti di questa scena non poteva non tornare alla mente l’incontro con il lebbroso. Poiché proprio quest’ultimo, narrano le fonti, avvenne al di fuori delle mura cittadine, in un’ambiente probabilmente simile a quello qui raffigurato. Contaminazioni di fonti che dunque si fondono in questo affresco a testimonianza di una vita, la quale anche prima della conversione era destinata alla santità. 

    Eldorato ad Assisi

    Giovanni de Gara, Eldorato, Assisi

    Un procedimento simile è alla base dell’opera d’arte / istallazione Eldorato di Giovanni de Gara. L’artista ha rivestito in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato le porte della Basilica di San Francesco con coperte termiche. L’oro è simbolo di ricchezza, è il colore dei cieli medievali, è il pigmento della luce ed è il metallo delle porte della salvezza. Ma non è unicamente nel colore la suggestione, seppure lo possa essere esteticamente, ma è nel materiale termico, nella funzione di quei mantelli che abbracciano i profughi, i migranti, gli ultimi in cerca di un’eldorado. È un’immagine di enorme forza espressiva che che crea un cortocircuito nella nostra memoria di immagini, (per molti di noi) solo di immagini e non di esperienze vissute. 

    All’ingresso della basilica di colui che abbracciava il lebbroso, hanno trovato posto questi teli aurei, a memoria di un abbraccio sempre necessario e a ricordo della chiamata ad essere noi, oggi, Francesco.

    Questi due mantelli, quello della scena giottesca e i ‘teli’ di de Gara, sono e saranno presumibilmente al centro della nuova enciclica di Papa Francesco: Fratelli tutti. È la prima volta che un papa sceglie il nome Francesco ed è un fatto eccezionale che egli firmi un’enciclica al di fuori dalla Sede papale.

    Un papa che come Francesco nella scena del mantello sceglie al tempo stesso di decentrarsi e di rimanere centrato. Un decentramento che muove e spinge al prossimo, ma anche una centralità che gli permette di accogliere il ‘bagaglio’ dello spicchio di cielo che sovrasta la sua testa e donarlo, attraverso occhi e mani, all’altro.

    Un papa e due opere che ieri, oggi e domani, hanno parlato, parlano e parleranno di misericordia, proponendo un modus vivendi incentrato su questo dono. D’altronde misericordia è beatitudine, eldorado, salvezza.

    Papa Francesco apre la Porta Santa per il Giubileo della Misericordia

  • arte,  attualità,  musei,  rinascimento

    Raffaello e Perugino, lo Sposalizio della Vergine

    Quattro incontri su Raffaello & Co. Collaborazioni, sfide e adattamenti che saranno accomunati da un partecipante fisso: Raffaello, glielo dobbiamo. Il 2020 è l’anno Sanzio: cinquecento anni dalla sua morte. In questo articolo scopriremo i suoi esordi: Raffaello e Perugino attraverso lo Sposalizio della Vergine.

    Insieme a lui altri artisti o personaggi che lo incontrarono e non; che ci lavorarono insieme e non; che gli insegnarono o che furono suoi allievi. È in realtà questa l’occasione per parlare delle mille facce di Raffaello e del suo unico volto, quello immortale del divin pittore

    Il padre e i “Due giovani per d’etate e par d’amori

    Il seme della passione per l’arte e la letteratura fu probabilmente gettato dal padre Giovanni Santi, il quale era sì pittore, ma soprattutto letterato e, in una sua opera (scritta), possiamo cogliere un indizio – celato come un biglietto nascosto tra le lenzuola dei corredi delle nonne – che egli lasciò al figlio sugli esempi da seguire.

    «Due giovani par d’etate e par d’amori»

    Giovanni Santi ha il grande coraggio di proporre a suo figlio due modelli giovani, grandi nella pittura: Leonardo e Perugino. 

    Raffaello a bottega dal Perugino

    Oggi in particolare vedremo come Raffaello duettò con il secondo di questi: Pietro di Cristoforo Vannucci: il Perugino. Uno tra i più celebri maestri del Rinascimento, che aveva imparato l’arte a bottega dal Verocchio al fianco di Leonardo e Botticelli, che tramutò tutto il reale in spazio e luce e che dipinse nella cappella Sistina, lì dove l’ancora giovane Raffaello non fu chiamato per affrescare bensì per completare, anni dopo, la decorazione della cappella, centro della cristianità, con degli arazzi. 

    Le prime opere

    Già il Vasari sostiene, a ragione, che il primo dipingere di Raffaello fosse così aderente alla maniera peruginesca da non poterlo distinguere. Dobbiamo infatti immaginare, vista l’assenza di documenti, che fu proprio attorno al 1486 che il giovane Raffaello lavorò nella bottega del Perugino, dove perfezionò l’iniziazione urbinate. Qui la pratica disegnativa era considerata di fondamentale importanza. Solo infatti passando da Perugia possiamo giustificare la bellezza stilistica alla base della pala di Tolentino (1500); caratterizzata da una grande sicurezza e modernità d’impianto.

    Pala di San Nicola da Tolentino Raffaello
    Raffaello Sanzio, pala di San Nicola da Tolentino, 1500-1501. Museo di Capodimonte, Napoli.

    Il genio di Raffaello è anche dimostrato dalla rapidità con la quale egli uscì dalla condizione di praticante per diventare magister. Fu proprio con questo termine che venne identificato nel momento in cui, pur diciassettenne, ricevette l’incarico della realizzare della pala di San Nicola, al fianco di Evangelista di Pian di Meleto.

    Di poco successiva è la pala Colonna. Anche questa caratterizzata dalla maniera puntigliosa e gentile del Perugino e da un metodo di costruzione della composizione che avveniva pre gradi: dai primi disegni, all’impronta di cartoni finiti al dettaglio fino alla realizzazione dell’opera.

    Pala Colonna Raffaello
    Raffaello Sanzio, Pala Colonna, 1503-1505. Metropolitan Museum of Art New York

    Di lì probabilmente la strada di Raffaello si distanziò, anche fisicamente, da quella del Perugino, per poi di nuovo affrontarsi e confrontarsi pochi anni dopo – maestro e allievo – sul tema dello sposalizio della Vergine. 

    Raffaello e Perugino: Lo Sposalizio della Vergine

    Fu difatti nel 1504, in contemporanea alla realizzazione della tavola di medesimo soggetto di Perugino per il duomo della sua città, che Raffaello realizzò l’opera per la cappella in San Francesco di Città di Castello della famiglia Albizzini. Raffaello vide probabilmente l’inizio del lavoro del Perugino il quale aveva ripreso una composizione già utilizzata per il grande affresco della Consegna delle chiavi nella Cappella Sistina. Questo confronto presente su tutti i libri di storia dell’arte ci rivela gli aspetti che Raffaello scelse di approfondire nella sua crescita artistica: 

    • La prima cosa che salta all’occhio è la differente seppur simile impostazione spaziale. Permane la  prospettiva centrale ma Raffaello rimpiccolì il tempio facendolo entrare completamente nel quadro e alzando di poco il fuoco prospettico. In questo modo viene accentuata la profondità e l’intera composizione assume un maggior respiro. Lo stesso edificio viene tramutato da ottagono in poligono a sedici lati: una forma più sfuggente, meno incombente e più armonica. 
    • C’è inoltre nello Sposalizio del Sanzio un affinamento della gamma cromatica, che permette anch’esso un diverso apprezzamento degli spazi. Due esempi tra tanti, le squadrature della pavimentazione e su tutti, la diversa luce che colpisce le numerose facce dell’edificio.
    • Infine, trasferendoci ai personaggi, c’è maggior naturalezza nelle figure, che comunque paiono ancora legate ai modelli perugineschi, ma in questi modelli iniziano a star strette sperimentando diverse e varie pose, tralasciando simmetrie e lavorando piuttosto sulle opposizioni. 

    L’allievo che supera il maestro?

    È il sorpasso! si dice. Ma nella cultura, almeno quella di Raffaello, non è il sorpasso di colui che sceglie di lasciare indietro il concorrente. Raffaello il Perugino ce l’ha in testa, sulle spalle, ne prende in prestito il lavoro per migliorarne gli aspetti e trasmetterlo, accresciuto ai posteri.  

    «É per il fatto di aver attinto a così tanti modelli, che diventò lui stesso un modello per tutti i pittori successivi; sempre imitando e sempre restando originale» Joshua Reynolds 

    In altre parole Raffaello è sì grande perché sa dipingere, perchè impara fin da giovane l’atto pratico del disegno e della stesura del colore, ma è divenuto grande perché nella sua vita ha saputo osservare e cogliere le grandezze e le bellezze degli altri e, da questi altri, imparare.


    Tanto altro su Raffaello:


    Iscriviti alla nostra Newsletter

    Ricevi la tua dose settimanale di bellezza!


  • arte,  attualità,  musei,  Novecento

    «Non vi è che la Maternità» l’opera di Gaetano Previati

    Oggi vi parlerò di maternità! Non in senso generale, tranquilli, ne saprei poco nulla! Vi parlerò dell’opera Maternità, di Gaetano Previati.

    Un fregio, una composizione stretta e lunga che ci conduce per mano fuori dal reale, poichè i fregi – benchè reali – erano destinati ai templi dedicati alle divinità. Le figure angeliche presenti nell’opera non conducono tuttavia in altre dimensioni, si prostrano invece ad una dimensione più che mai umana.

    Quello che vediamo è infatti un momento di quotidianità materna: l’allattamento. Un tema svolto in molte epoche artistiche e qui riproposto in una composizione non dissimile, della donna e del bambino. Previati inserisce trovate pittoriche sempre nuove nel loro guardare e reinterpretare modelli passati ma, con un qualcosa di diverso, che è segno distintivo dell’epoca e dell’artista: il sentimento. 

    C’è difatti in questa donna, e in questi angeli contemplanti il mistero tutto umano della maternità, il torpore sereno di un momento intimo e silente. Sentiamo il fruscio del vento che sussurra ai fiori, gigli e anemoni (presi dalla tradizione cristiana), che smuove le piume delle ali angeliche e volteggia tra le fronde dell’albero di melarancio. Quest’ultimo probabilmente, simbolo di fertilità.

    «Sono invischiato a rendere nella figura principale del quadro tutta l’intensità dell’amore materno spogliato dalle cianfruscole che hanno servito per mille dipinti – e in un renderlo partecipe del movimento delle altre figure del quadro perché ne risulti un tutto omogeneo che impedisca qualunque altra interpretazione dell’occhio dell’osservatore – ma che difficoltà Dio mio. 

    Ti sei tu ben formato l’idea di ottenere da una tela una voce che annienti il vostro temperamento, i vostri gusti, la vostra educazione e vi faccia prorompere dall’animo il grido che l’universo, la terra, la vita è nulla…. Non vi è che la maternità?!!! Anche sulla tela non vi devono essere né colori né forme – né cielo né prati – né figure di uomini né di femmine ma un fiat che dice adorate la madre…»

    La prima esposizione alla Triennale di Milano

    La difficoltà dell’artista nel comporre l’opera, di cui ci sono testimoni molti bozzetti e il carteggio con il fratello Giuseppe, fu in realtà specchio della critica che questo dipinto suscitò. Accettata per una manciata di voti alla Triennale milanese del 1891 (la triennale del debutto del divisionismo italiano) fu oggetto di giudizi contrastanti che tendevano a rifiutare ‘l’idealità’ di questo dipinto in favore di una pittura verista e indagatrice del reale. In quella medesima sala della triennale vi era un’altra opera di simile tema: Le due madri di Giovanni Segantini. una tela questa caratterizzata sì da una tecnica simile o quantomeno fondata sui medesimi principi di quella di Previati, ma che non fuggiva dal reale.

    Un pittore idealista

    Previati dal canto suo, fu sempre scansato, in quanto nel suo essere pittore vi era anche l’essere poeta.

    Scriveva in un articolo il suo gallerista Grubicy: «Per il Previati la tavolozza è soltanto sorgente di poesia: per lui ogni colore è sentimento, è idealizzazione di immagine, è via a entrare nell’impenetrabile. A questo alto concetto egli tutto sacrifica. Chi non accetta questi propositi del pittore, chi non si sente chiamato a entrare in queste sottilità poetiche non guardi il quadro del Previati. Ci perderà la testa; e pretenderà che la testa l’abbia perduta il pittore. Egli ha veduto per sentire non ha veduto per vedere».

    E continuava l’artista: «Ma se il mio cervello è tormentato da un’idea astratta, mistica, indefinita nelle sue parti, la cui bellezza estetica risiede appunto in questa sua indeterminazione simbolica; se nel mio cervello questa idea, col cercare di incorporarsi e di manifestarsi, respinge con insistenza ogni immagine positiva che richiami alla realtà, e non trova la sua espressione se non mantenendosi in una specie di visione complessiva fluttuante, sintetica, di forme e di colori, che lascino appena intravedere il simbolismo o ideismo musicale e quasi sopratterreno del mio pensiero;

    perché non mi sarà permesso di tentare la ricerca di un suono, d’una formula più tassativamente appropriata, invece di valermi delle solite parole, dei soliti strumenti, delle solite formule, che servirebbero bensì ad esprimermi secondo le consuetudini, ma non mi soddisfano, perché parmi che qualsiasi richiamo alla realtà debba contrastare e distruggere la natura dell’immagine complessiva che io accarezzo nella mia mente?

    Dunque cercherò qualche mezzo che mantenga al mio pensiero il suo carattere vago, oscillante di visione o di sogno indeterminato che sintetizzi forme, linee e colore, in modo da escludere qualsiasi divagazione sui dettagli, costringa la mente del riguardante a lasciarsi cullare dal simbolismo decorativo complessivo della mia idea».

    Il Previati divisionista

    Previati sperimenta dunque la tecnica nuova del divisionismo, che trae le sue fondamenta dalle teorie ottiche sulla rifrazione della luce e sulla scomposizione del colore di Chevreul e Rood. Il divisionismo diveniva la tecnica ideale per rompere con gli schemi e le convenzioni del realismo percepite da Previati come un limite. E tuttavia non fu solamente un mero mezzo, poichè alla sua base vi era un concetto nuovo di pittura: ‘la pittura di idea’.

    Si noti la differenza sostanziale, che non è solo tecnica, tra la prima redazione di maternità e l’opera compiuta. Nella prima c’è ancora un’adesione ai modi della pittura scapigliata di Tarquinio Cremona, dalla quale lo stesso Previati aveva attinto in gioventù. 

    La tela e la fortuna del pittore

    La grande tela subì nel corso del tempo lo stesso destino che in qualche modo toccò all’intera opera pittorica di Previati. Pochi anni dopo l’esposizione venne inviata a Parigi, per poi tornare ed essere lasciata in depositi pubblici, poiché l’artista non potè pagare il trasporto e il noleggio di un magazzino. Venduta all’asta ad insaputa di Previati fu riacquistata per sua volontà dal Gallerista Grubicy, suo sostenitore, per poi essere per lungo tempo dimenticata. Soltanto negli ultimi decenni la figura di questo pittore è stata progressivamente recuperata quale personalità chiave della sua epoca. E Maternità permane un’opera programmatica e apicale nella sua arte, la tela che gli permise di affermare:

    «Ho passato la linea che separa la tenebra dalla luce».

  • arte,  attualità

    L’arte di Jeff Koons

    Noi come i suoi Baloons

    Ora chiudete gli occhi, rilassate i muscoli e, dimenticandovi di ciò che avete attorno, ascoltate il vostro respiro, inspirate…espirate, inspirate…espirate, inspirate…espirate…

    Ecco questo è già un primo passo per capire l’arte di uno tra i più celebri artisti contemporanei, erede di Andy Warhol e autore dei famosissimi Baloon dogs: Jeff Koons.

    Chi è Jeff Koons

    Jeff Koons nasce nel 1955 e compare sulla scena artistica alla fine degli anni Settanta. I suoi primi lavori hanno la forza di estrapolare ciò che più di ogni altra cosa stava modificando la vita pratica e quotidiana delle persone: un telefono, un tostapane, un frigo, e presentarli mutatis mutandis come opere d’arte, ponendoli davanti agli occhi del consumatore/spettatore. 

    Koons quindi inizia riflette e far riflettere sull’eterno binomio arte-mercato che in quegli anni è arte-capitalismo, arte-consumo, arte-pubblicità. La novità, il nuovo esposto e decontestualizzato, poiché tolto alla sua funzione. 

    L’artista elabora una sequenza di novità, new, oggetti, ready made presi dall’arte di Duchamp, mediati dal minimalismo di Flavin e esaltati dal pop di Warhol. 

    La cifra del 'respiro' nell'arte di Jeff Koons

    Di questa serie New, ci interessano i diversi e numerosi aspirapolveri, oggetti del desiderio di migliaia di donne americane, esposti in eterno in vetrine illuminate da neon nelle loro differenti livree di colore. Qui Koons letteralmente mette in vetrina degli oggetti del mercato spostando l’attenzione sulla funzione/vita di queste macchine. 

    Oggetti inattivi diventano arte e, come animali impagliati in un museo naturalistico, vengono privati del loro unico movimento, della loro sola funzione (vitale): del loro respiro. L’aspirapolvere che aspira ed espira diviene, posta in quel contesto, metafora dell’uomo, in quanto partecipa al processo che permette all’uomo la vita. 

    Contenere dell’aria è dunque il sottotesto, la costante di Koons e della sua esperienza artistica. C’è un simbolismo nei gonfiabili, che a che fare con il respiro, con qualcosa che non è visibile.

     

     

    Hoover -Shelton-Pol.tif

    I Baloon dogs di Jeff Koons «canti all'ottimismo»

    Koons dichiarò dopo la vendita di uno dei ballon dog per 58 milioni di dollari: «sono opere simboli di tutti noi, esalare e aspirare aria ci rende inflatables, movimento che è doppio, inalare è movimento della vita, esalare è movimento di morte, ma queste sculture sono canti all’ottimismo a cui macherà sempre il momento della cancellazione». I baloon dogs sono dunque una esaltazione dell’ottimismo di vivere poiché non esaleranno mai l’ultimo respiro. 

    Un’ottimismo caratterizzato dallo stato bambinesco della meraviglia, ma anche dell’incoscienza. Bambinesco è il soggetto, bambinesco è il colore. E Koons sa bene che queste strategie sono le stesse che il capitalismo insinua nella società per rendere anche il bambino un consumatore, un consumatore indiretto. 

    Il Kitsch e il contemporaneo

    Quella di Koons è una forma di rottura netta e sfacciata con l’arte intellettuale degli anni Sessanta e Settanta, è un’arte populista, che prende con se i linguaggi del kitsch.

    C’è infine un’ultimo elemento affatto trascurabile, e che approfondisce ulteriormente la riflessione: La superficie lucida che rimanda all’esterno, specchiando. Cosa nient’affatto nuova. La politura delle superfici è sempre stata utilizzata in arte, dalle pareti marmoree delle chiese che dovevano rispecchiare forme e luci, ai contrasti tra le superfici lisce e quelle lavorate a gradina dei marmi michelangioleschi. 

    E tuttavia, in questi ultimi e nella scultura in generale, la lucidità era utilizzata per mostrare ‘l’interno’, l’anatomicità, la perfezione in essere del soggetto scolpito. In Koons è invece rivelatrice dell’esterno poichè specchia noi stessi, mettendoci impudicamente di fronte ad una verità: questo sei tu! Questi siamo noi!

    Siamo noi nel senso letterale del termine e del soggetto dell’opera: corpi pieni d’aria, effimeri. Ma siamo noi anche nella forma dell’opera d’arte. Questa società, a volte, ci trasforma in grandi, colorati, infrangibili palloncini, compiaciuti e tronfi nelle nostre vanità.

    C’è poi la bellezza e il contrasto tutto contemporaneo, che su quella superficie ci si specchia l’ambiente, il mondo, e quindi il passaggio dall’io al noi diviene impercettibile nella sua vastità.

    Ecco allora, questo siamo noi, volente o nolente è uno specchio del nostro essere oggi. Questa è la forza dell’arte, realizzare opere, oggetti, suoni, immagini che parlino dell’oggi e che propongano riflessioni sullo stato di una società. 

    Un palloncino, noi e il capitalismo.

     Dove esattamente si formulano e si manifestano le novità del pensiero dell’arte della poesia, se tutta l’arte contemporanea è merda? dove il nostro tempo è se stesso?. 

    Jeff Koons a Firenze

  • arte,  attualità,  musei,  Uncategorized

    Sulla distruzione delle statue

    L’iconoclastia in tempi moderni, il fantasma del fascismo e Me di Giovanni Morbin.

    Oggi parleremo del nulla.

    Avrete in questi mesi visto alcune di queste immagini. Scopriremo, anche attraverso di loro, la potenza espressiva del vuoto, nell’arte e quindi… nella vita.

    La distruzione delle statue

    Oggi ci accorgiamo che qualcosa non ci piace e la distruggiamo. Un po’ come l’Isis, un po’ come i talebani, un po’ come tanti altri. Questo è il principio che sta al fondo di un qualsiasi conflitto, non solo armato, un’idea tutt’altro che democratica che è il primo passo verso la non equità e la non uguaglianza. 

    Oggi ci accorgiamo di monumenti controversi che affollano le nostre piazze: in Italia la statua del giornalista Montanelli, a Boston e Richmond quella di Cristoforo Colombo, del presidente Jefferson e, in Inghilterra, quella dei trafficanti di schiavi Edward Colson e Robert Milligan. E non finisce la lunga lista delle statue che si sono prefissi di abbattere seguendo una vera e propria hill list. La distruzione delle statue: l’iconoclastia contemporanea che cancella l’arte, la storia e la memoria.

    E, bene che si riapra il dibattito su queste ed altre figure: ma deturpare, distruggere, cancellare: non è dibattito.

    La forza espressiva del vuoto

    Anche perchè, come nei secoli passati, la damnatio memoriae e la conseguente distruzione, cancellazione, lasciano un vuoto: un vuoto in termini visivi, tangibili e un vuoto documentario. 

    Il primo lo vediamo in molte testimonianze storico-artistiche e, siamo inconsapevolmente attratti da lui. Di fronte a una qualsiasi immagine la nostra mente è attratta dal ‘mancante’ e quel mancante diviene il focus primario della visione e quindi dello studio. il pezzo di puzzle che manca, magari oscuro, ma assente, e quindi non si può avere un giudizio su questo.

    Un vuoto che diviene allora documentario e storico. E la storia si fonda sui documenti, sulle testimonianze anche artistiche. Non è accettabile questa riduzione del dibattito delicatissimo sulle tracce del passato all’abbattimento di statue e monumenti. Poiché è proprio quando si fa difficile e sfocato il discorso storico che emergono le ignoranze, i negazionismi, i ‘terrapiattismi’ e i neofascismi.

    E l’Italia fascista?

    Se non la distruzione, quale sarebbe la soluzione allora? Cosa fare ad esempio con la Roma e l’Italia costellata di architetture e simboli fascisti? 

    Cancellare no! Dannare la memoria non può essere la soluzione del nostro secolo. Ci diciamo che la memoria è preziosa, è vero, purché essa diventi motivo e mezzo di dialogo. 

    Proprio in merito alle tracce del fascismo nella nostra cultura e vita quotidiana, Gianni Rodari consigliò, quando ancora il dibatitto sui monumenti e sulla Roma fascista infiammava: 

    «Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte».

    Ex casa del fascio di Valdagno, ora Ufficio delle imposte dirette.

    L’opera Me di Giovanni Morbin

    Un’aggiunta semplice, diretta, potente è stata realizzata nel 2014 dall’artista contemporaneo Giovanni Morbin sulla facciata dell’ufficio delle imposte dirette ex casa del fascio di Valdagno. Gli abitanti della cittadina hanno visto comparire al fianco della lettera M in carattere ferreo e rigido del Mussolini che fu, una e in marmo rosa, che ripropone il ‘problema’ fascismo e lo propone allo spettatore che è. Il significato di quel luogo per la comunità cittadina, dato ormai per scontato, con l’aggiunta semplice di una lettera si incunea nella quotidianità proponendo un’interrogativo personale e uno spunto per un’assunzione di responsabilità e di memoria. L’artista ha sottolineato la sua volontà di introdurre “gesti nello scorrere del giorno” perchè mettano lo spettatore vis à vis con il suo ego fascista, assopito, ma che sta emergendo di nuovo.

    Un’istallazione, una minima modifica dello spazio pubblico, che ci interroga sulla socialità contemporanea e sul significato dell’architettura e della scultura, che tra le mani di Morbin divengono uno strumento maieutico di svelamento nel presente di zone oscure che sono parte della nostra pische e, in termini sociali, di fermenti invisibili e subdoli di fascismo patinato, educato, di fascismo perbenista o borghese e apparentemente anche benevolo.

    Opere che – dice l’artista – hanno il dovere di mettere in discussione le abitudini. 

    Oggi ci accorgiamo di quelle statue nelle piazze. Perchè proprio lì? Perchè la piazza dettava un tempo la via. E allora iniziamo accorgerci di quanto questo nostro tempo ci abbia tolto dalle piazze, portandoci nelle piazze mercato e distraendoci, togliendoci obiettivi e ideali. Vogliamo ritornare nelle piazze e sostituire le immagini che ledono la sensibilità di alcuni o di molti? Bene, se ne parli, si prenda una decisione, ma non si distrugga. Piuttosto si portino quelle statue in Museo, oltre che essere opere d’arte, sono storia e patrimonio comune. 

    Come ci dice Morbin, quella storia, qualunque storia, riguarda anche Me.

    Forse oggi più che mai è indispensabile prendersi ancora più cura dei ‘monumenti vivi e viventi’: degli anziani, degli adulti, dei genitori, degli insegnanti, degli educatori e cioè di tutte le persone che aiutano a crescere; in quanto l’unica cosa da abbattere oggi è l’ignoranza, non il passato. Poichè come ci dice Morbin: quella storia, qualunque storia, riguarda anche Me.

  • arte,  arte contemporanea,  attualità,  musei

    Il caso Moro attraverso l’opera di Francesco Arena

    L’affaire Covid come l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. E soprattutto oggi, forse più di allora, sarebbe valida e percepiamo come vera l’idea verbale che Aldo Moro restituì dell’Italia: «un Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili».

    Alcuni giorni fa ho assistito a un interessante dibattito televisivo nel quale si partiva da un dato: 55 giorni. 

    Il caso Moro e i giorni della quarantena

    I 55 giorni della storia italiana furono i giorni del sequestro Moro. Poco meno di due mesi in cui l’Italia, il paese Italia, il governo, gli italiani, rimasero sospesi, in bilico tra forze contrastanti, non sempre chiare e manifeste e, soprattutto, con principi e metodi tra loro inconciliabili. 

    Al centro di quel caso, un uomo, prima che un presidente. 

    Ebbene quei 55 giorni sono stati accostati ai giorni da poco trascorsi in casa da tutti noi. Altri tempi, altre motivazioni, altre soprattutto le reazioni suscitate. Rimane interessante questo confronto proposto con le immagini, spesso oppositive di momenti e protagonisti. E tuttavia è mancata a mio parere una riflessione essenziale, che davvero può marcare il segno di distinzione e al tempo stesso accomunare questi diversi 55 giorni. 

    Certo, in entrambi i casi lo sbigottimento, l’incredulità, la paura, di una intera nazione; la coscienza di essere stati colpiti da un nemico poco-visibile, il dubbio e il timore dell’altro. Tutte queste cose accomunano in superficie questi due momenti che in profondità sono però radicalmente differenti.

    L’opera: 3,24 mq

    Un secondo numero: 3,24 mq è il titolo dell’opera dell’artista contemporaneo Francesco Arena (nato nel giugno del 78), realizzata per una mostra della Galleria Monitor ed esposta, per 55 giorni nel 2018, presso il MAXXI. 

    3,24 mq di Francesco Arena, esposta al MAXXI nel 2018.

    L’opera è un luogo, un luogo ricostruito sulle presunte sembianze di un luogo non trovato mai completamente. L’artista racconta di aver visto l’appartamento in cui le BR tenevano Moro e di aver osservato le tracce dei fondelli di questa cella sul pavimento, cancellate poi definitivamente nel 2005.

    Nella Roma, città di santi, di reliquie di pellegrinaggi, Arena si è messo in cammino. La storia d’altronde è mettersi in cammino, mettersi alla ricerca, prendere le misure per conoscere le cose: 3,24 mq costituisce la misura del vuoto di quel luogo.

    L’opera come scultura

    L’opera è una scultura apprezzabile nella sua semplicità esterna di un’anonima cassa per imballaggi e che, già nel termine cassa, evoca il destino funereo di quello spazio tutt’altro che vitale. 

    L’opera come stanza

    L’opera è una stanza, uno spazio concreto senza aggiunte, la ricostruzione della cella in cui Moro trascorse prigioniero i 55 giorni. Penetrabile parzialmente e indagabile visivamente attraverso uno spioncino. Due i punti di vista dunque, uno esterno dell’uomo o della donna che si accostano ad un qualcosa che dicesi arte, come gli uomini e le donne che passarono vicino a quelle mura senza capire cosa ci fosse oltre. E uno meno esterno, dello spettatore che, avvicinandosi ed entrando nel primo piccolo spazio, spia all’interno, scrutando una situazione, percependo una presenza, una storia. Senza tuttavia poterla mai vivere e comprendere a pieno, poiché siamo coloro che, come scriveva Sciascia, la vivono con il senno di poi. 

    L’opera come luogo di trasformazione

    L’opera, suggerisce l’artista, è il luogo della trasformazione di un uomo, di un paese. Quello che rimase in quel non luogo e che rimane in 3,24 è la trasformazione di un uomo libero in un prigioniero. E su questo si gioca il vero raffronto con il contemporaneo. Sui diversi piani dell’unico valore della libertà. Nemmeno immaginabile allora appare il raffronto tra la Libertà (con lettera maiuscola) di cui Moro fu privato, e le libertà di cui ci stiamo volontariamente privando. Forte il significato di interconessione delle diverse e personali libertà che ne scaturisce. 

    Il Covid e l’affaire Moro: libertà

    L’affaire Covid come l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. E soprattutto oggi, forse più di allora, sarebbe valida e percepiamo come vera l’idea verbale che Aldo Moro restituì dell’Italia: «un Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili».

    L’opera sono infine delle parole. Poiché ricostruisce lo spazio delle lettere scritte da Moro. Lì, più che mai, si percepisce la vera privazione della libertà.

    «Ecco, nell’Italia democratica del 1978, nell’Italia del Beccaria, come in secoli passati, io sono condannato a morte…» 

    (Lettera a Zaccagnini 22 aprile 1978)

    «Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà». 

    (Discorso del 28 febbraio)