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    Frida Kahlo una donna simbolo della sua epoca

    «La rivoluzione è l’armonia della forma e del colore e tutto esiste, e si muove sotto una sola legge: la vita»

    Frida Kahlo

    Frida Kahlo è, forse, la più celebre pittrice del XX secolo. 

    Una donna forte, indipendente e appassionata segnata da una vita travagliata e piena di dolore. Un’esistenza raccontata attraverso immagini dalle forme semplici eppure emotivamente travolgenti.

    Una donna che nonostante tutto ha sempre celebrato e gridato  il motto VIVA LA VIDA!

    Scopriamo un po’ di lei attraverso alcune sue opere, parole e video…

    Autoritratto con il vestito di velluto (1926)

    L’incidente

    «L’incidente avvenne su un angolo, di fronte al mercato di San Juan, esattamente di fronte. Il tram procedeva con lentezza, ma il nostro autista era un ragazzo giovane, molto nervoso. Il tram, nella curva, trascinò l’autobus contro il muro.»

    Frida Kahlo
    L’autobus (1929)
    La colonna rotta (1944)

    Frida e Diego

    «Ho subito due gravi incedenti nella mia vita…il primo è stato quando un tram mi ha travolta e il secondo è stato Diego Rivera.»

    Frida Kahlo
    Ospedale Henry Ford (o il letto volante) 1932

    Le due Frida

    «Dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio.»

    Frida Kahlo
    Pensando alla morte (1943)

    «Non rinnego la mia natura, non rinnego le mie scelte, comunque la si guardi sono stata fortunata nella vita.»

    Frida Kahlo
    L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico) io, Diego e il signor Xoloti (1949)
    Viva la vita (1954)

    «Tanto assurdo e fugace è il nostro passaggio per il mondo, che mi rasserena soltanto il sapere che sono stata autentica, che sono riuscita ad essere quanto di più somigliante a me stessa mi è stato concesso di essere.»

    Frida Kahlo
  • arte,  attualità,  Lezioni americane

    LA RAPIDITÁ come valore. Da Calvino, per Hopper ed Escher, a Dosso Dossi.

    Quando la rapidità è valore? Rapidità in arte e letteratura…in che senso? Perchè sostenere le tesi della rapidità nell’oggi che già di per sé corre veloce?

    A queste domande proveremo a rispondere in questo terzo appuntamento dedicato alle lezioni americane di Italo Calvino.

    Benzina di Edward Hopper: un’opera veloce

    Prima di un qualsiasi viaggio è necessario fare rifornimento ed è per questo motivo che ci fermiamo per alcuni secondi insieme ad Hopper, in una delle sue atmosfere irrealmente umane, a fare benzina.

    Sembra strano iniziare il discorso sulla rapidità da un’opera del genere e ben potreste credere che lo si faccia unicamente per il suo titolo. Ebbene, benzina è rapidità in potenza, ma qui Hopper la rapidità la rende atto.

    Sì perché ogni opera d’arte, come ogni narrazione, non è unicamente ciò che essa racconta o narra, bensì è anche forma, colore e suono. Un dipinto in altre parole è il risultato di studi compositivi, in alcuni casi portati avanti per mesi o per anni, frutto ultimo e complesso di schizzi e disegni preparatori.

    É nella composizione di questo quadro che percepiamo la rapidità: nella prospettiva scorciata, nelle numerose diagonali, nel ripetersi in successione delle tre pompe luminose, e nell’indefinito scandirsi dei tronchi dei pini e delle loro chiome mosse dal vento. Sebbene dunque molti dei dipinti di Hopper siano apparentemente statici, fotogrammi delicati della società d’allora, essi celano rapidità, e in questo ossimoro intrinseco funzionano. 

    Madonna Oretta scese da cavallo!

    Ma all’automobile, il caro vecchio Boccaccio preferiva ovviamente il cavallo. Nella novella di Madonna Oretta il celebre scrittore ricorda quanto un valore come quello della rapidità, nel saper narrare, sia di vitale importanza. Essendo la gentile donna in groppa ad un cavallo e in compagnia d’un uomo «al quale forse non istava meglio la spada allato che il novellar nella lingua», interropendosi e ripetendosi spesso nel racconto, ella decise di continuare il viaggio a piedi sostenendo «messere questo vostro cavallo ha troppo duro trotto!».

    Il raccontare una storia è assimilato all’andamento di un cavallo, e se mal narrata, bè si preferisce andare a piedi…In questo caso non è certo la velocità nella dizione, bensì il susseguirsi degli eventi, lo scandirsi logico della narrazione e la leggerezza nel racconto.

    Escher e le sue metamorfosi

    Escher, ad esempio, ci dà una efficace lezione su ciò che la rapidità, se ben dosata, può suscitare. In questa sua opera l’artista compie uno dei suoi viaggi metamorfici, dando una cadenza quasi maniacale al racconto, un’evoluzione continua eppure in ogni suo aspetto descritta completamente. Egli suscita il desiderio di conoscere il seguito, la volontà di continuare un viaggio. 

    «Ecco che allora il racconto – sostiene Calvino – appare come un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo contraendolo o dilatandolo». Pensiamo semplicemente alle short stories, o al processo esattamente opposto e iterativo del racconto nel racconto. Pensiamo a quanto sia importante il ritmo nel raccontare una barzelletta.

    La rapidità e il cavallo

    La metafora del cavallo fu utilizzata anche da Leopardi il quale, riferendosi al discorrere di Galileo, lo diceva essere «cavallo che corre e non cavalli che portan peso». 

    Nella società dei record, nell’epoca di wikipedia, nell’oggi in cui la velocità frenetica sembra prerogativa per il successo e spesso anche per il semplice vivere, quella del cavallo sembra metafora da scartare e ben superata. 

    Eppure quella di cui si sta parlando e che sarebbe valore nelle nostre vite è la velocità mentale, la quale secondo Calvino, non può essere misurata e non permette gare. Una rapidità dunque che sfugga la crosta omogenea e uniforme di comunicazione dei media odierni e si valorizzi nella differenza. 

    Vulcano e Mercurio

    Una rapidità che in letteratura e nel narrato sia fondata sulla ricerca del ‘mot juste’ perchè in ogni frase la parola sia insostituibile e perché in arte l’ispirazione si traduca in forma, in realtà. Che sia una rapidità fondata su Mercurio e su Vulcano. Sul Mercurio dai piedi alati, leggero e adattabile, disinvolto e agile e sul Vulcano focale e concentrato, che lavora di mano, che cesella. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie affinché le fatiche di Vulcano diventino portatrici di significato. Rapidità è ispirazione certezza di passo e scelta di meta! 

    Giove dipinge farfalle di Dosso Dossi

    Questo lo ritroviamo in quest’ultima opera, di Dosso Dossi, dove vediamo il re dell’olimpo lasciare da parte gli strumenti del suo potere e cimentarsi nell’atto creativo, dando origine a delle farfalle. Al suo fianco Hermes, Mercurio. L’atto creativo, il tempo di una pennellata, la rapidità di un battito d’ali, la ricerca di una parola…


    Le altre Lezioni americane

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    Raffaello Sanzio: la Fornarina e la Trasfigurazione

    La Trasfigurazione e la Fornarina sono due tra le opere più celebri di Raffaello Sanzio e sono le due tele più vicine alla sua morte. Scopriamo perchè!

    Roma. Era il 2 novembre di questo 2020 quando è venuto a mancare Gigi Proietti, un genio che per ironia della sorte, è morto il giorno del suo compleanno. Il 2 novembre, il giorno dei morti. 

    Roma. Era il 6 aprile 1520, cinquecento anni fa, quando è venuto a mancare Raffaello Sanzio, un altro genio, che l’ironia della sorte ha voluto morisse il giorno del suo compleanno. In quell’anno, guarda caso, venerdì santo.

    Le ultime opere di Raffaello

    In questo ultimo video della miniserie dedicata al divin pittore scopriamo due delle ultime opere di Raffaello: la Fornarina e la Trasfigurazione. Ci rifiuteremo inoltre di parlare di ‘fine’ di Raffaello, perché è proprio alla luce del percorso che abbiamo fatto che è possibile chiedersi: perché parlare di inizi (al plurale) e di fine (al singolare)?

    La morte di Raffaello Sanzio

    La morte di Raffaello fu la tragedia del 1520. Il pittore lasciò le sue spoglie divine per mostrarsi anch’egli soggetto all’azione della morte. Da quel giorno ebbe origine un processo di ‘canonizzazione’ artistica. Insomma, non condizioni migliori potevano attendersi coloro che trasformarono la storia di Raffaello in mito. Poiché il 6 aprile era anche la data, ricordata dai colti, dell’incontro di Petrarca con Laura, ma fu anche il giorno in cui ella morì, sempre di venerdì santo. 

    Tutto in qualche modo sarebbe tornato nelle narrazioni, mentre nella spettatrice silenziosa che Roma era la notizia si propagò in tempi lampo, trasmessa per lettere e per sonetti. Di giorno in giorno rimbombava per tutta Italia l’annuncio della prematura e già romanzata scomparsa. Raffaello morto lo stesso giorno di Cristo, e scrivevano: 

    «Perchè sorprendersi se tu moristi nel giorno in cui Cristo morì?

    Questi era il Dio della Natura, tu eri il Dio dell’arte»

    La Trasfigurazione di Cristo di Raffaello

    Ma veniamo alle opere. Giorgio Vasari racconta che il corpo di Raffaello fu portato nella sala ove il pittore stava terminando la Trasfigurazione di Cristo «la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a chiunque quivi guardava». Questa fu l’ultima opera di Raffaello, probabilmente terminata dai suoi allievi, come i numerosissimi altri progetti ai quali egli stava lavorando. Fu commissionata alcuni anni prima dal cardinale Giulio de’ Medici il quale aveva richiesto un’opera per la medesima chiesa narbonense a Sebastiano del Piombo: a quest’ultimo spettava il soggetto della Resurrezione di Lazzaro, mentre a Raffaello la Trasfigurazione di Cristo

    Come però riempire e conferire dinamismo ad un episodio così lirico? Come poter inserire nell’opera passioni e sentimenti umani senza togliere significato alla rivelazione divina?. Perché nella sfida, forse un po’ romanzata con il duo Michelangelo-Sebastiano del Piombo, Raffaello doveva catturare e stupire. Doveva, e questo ci piace, andare oltre.

    Descrizione dell’opera

    La trasfigurazione di Raffaello

    Il pittore fece allora ciò che meglio gli riusciva, disgiungere per congiungere, dividere per unire, realizzando una composizione bipartita e al medesimo tempo unica. Cristo domina il dipinto, risultando centro della parte superiore. Sole irradiante nel suo bianco splendente e incorniciato in questa nube che è luce e ombra. Un Cristo che si affida al cielo, con le mani levate. Ai lati l’apparizione di Mosè ed Elia nelle loro vesti scosse dal vento, nelle pose d’angeli senz’ali, con i volti rivolti al figlio di Dio. Due figure a sinistra, due santi, riescono a tenere gli occhi aperti e partecipare a quella visione, Felicissimo e Agapito oppure Giusto e Pastore. Spostandoci in basso un diaframma divide la scena, una cima di monte simile a grande cuscino erboso. Su questa sono distesi e accovacciati i tre apostoli, Giacomo, Pietro e Giovanni. Il primo chiuso nel terrore, gli altri travolti dalla luce.

    Scendendo poi dal monte Tabor il vangelo di Matteo narra dell’incontro di Gesù con una piccola folla di persone. Tra costoro un padre disperato per le condizioni del figlio, un fanciullo ossesso, epilettico. Ecco allora che le braccia scompostamente allargate del giovane sorretto dal padre, dialogano opponendosi con quelle del Cristo, dalle quali riceverà la salvezza. È questo giovane il centro compositivo della parte sottostante: a lui sono rivolti gli sguardi, e le dita. È la sua condizione a destare preoccupazione, tenerezza, impotenza, disperazione. Un’enciclopedia di moti dell’anima invade questa parte del dipinto, più terrena, più prossima allo spettatore.

    La luce nella Trasfigurazione

    La salvezza discende dall’alto e si manifesta con calma serafica in un dirompete bagliore. Sopra luci soffuse che si originano dalla nube. Sotto una luce più spigolosa e marcata che dà origine a un chiaroscuro colmo di pathos. Sullo sfondo, oltre il monte Tabor, un tramonto.

    La Fornarina di Raffaello Sanzio

    La Fornarina di Raffaello

    Un’altra opera, oltre alla Trasfigurazione che fu ritrovata nello studio di Raffaello dopo la sua morte, è il celebre ritratto di donna a mezzobusto passato alla nostra storia con il nome terreno di Fornarina. Si crede che Raffaello in questo dipinto ritrasse la donna amata, tale Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere. Eppure il termine fornarina inizia a comparire nei documenti solamente nel XVIII secolo. Osserviamo una donna reale sì, ma pure incarnazione di bellezza, un ritratto, ma perché non un’allegoria di amore? Potremmo scorgervi una Venere forse, seduta tra il mirto, pianta a lei sacra. In questa donna divina cosparsa di luce soffusa e colori perlacei, adorna di gioielli e veli di fine trasparenza, Raffaello lasciò il suo nome: Raphael Urbinas. 

    La Trasfigurazione e la Fornarina di Raffaello: gli inizi e le ‘fini’

    Gli inizi di Raffaello portarono a tutto ciò ed è inconcepibile parlare di fine. Per Raffaello, ma per ciascun uomo parlerei di fini. Tanti i progetti avviati e pensati ai quali i suoi allievi, tra i più celebri Giulio Romano e Giovan Francesco Pierini, diedero poi vita. Tante le idee, numerose le innovazioni, innumerevoli le figure che da allora in avanti cambiarono e plasmano oggi la vita delle persone. Le ‘fini’ dunque di Raffaello.

    Infine Roma, Raffaello e Gigi Proietti

    Gigi proietti al teatro globe

    Avevamo iniziato con le coincidenze. Concludiamo con un’analogia che coincidenza non è: l’amore di Roma per Gigi Proietti e le parole di coloro che raccontarono la morte di Raffaello:

    «La cui morte è doluto a tutti di Roma»

    «Con universal dolore di tutti»

    Quella Roma tanto amata da Raffaello da scrivere al papa queste parole:

    «Non debe, adonque Padre Santissimo, esser tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo haver cura che quello poco che resta di questa antica madre de la gloria e grandezza italiana…»

    Quella Roma che dona e che toglie. Un po’ come questo 2020. Però scusate, Gigi glie lo avrebbe detto, col sorriso ma, a questo 2020 glie lo avrebbe detto: …nun me rompe er ca’!

    Ciao Raffaello! Ciao Gigi! Arrivederci!

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    LA VISIBILITÀ: un memo per il nostro tempo. Da Calvino, per Dante e Bernini.

    La fantasia è un posto dove ci piove dentro. È questa un’affermazione che potrebbe apparire strana, eppure sono parole di Dante Alighieri:

    «Poi piovve dentro a l’alta fantasia» (canto XVII del Purgatorio) 

    La visibilità secondo Dante

    Nella Divina Commedia attraverso il suo viaggio ultraterreno, Dante ci fa rivivere i suoi incontri e i dialoghi con le anime che incontra lungo il cammino. Ma come descrivere anime senza corpo? Dapprima le delinea quasi come bassorilievi, poi quali forme sfuggenti percepibili non più bene alla vista, quanto piuttosto all’udito; infine come immagini mentali piovute, appunto, dall’alto. L’immaginazione, e cioè il dono di rendere visibili i pensieri, viene secondo il poeta da Dio, e fa sì che «Om non s’accorge perchè dintorno suonin mille tube».

    La cosa veramente senza precedenti è il fatto che il Dante nella Commedia, il Dante personaggio, rifletta sulla parte visuale della fantasia, chiamando in causa il Dante poeta, il quale immagina e scrive e, in questo momento, immagina e scrive di se stesso personaggio che immagina. 

    Due inversi processi…

    Ci sono due inversi processi per la visibilità, due processi immaginativi che riguardano in particolar modo la letteratura ma che possono essere applicati ad ogni altra forma d’arte. L’uno si diparte dall’immagine mentale per poi concretizzarsi nell’espressione verbale, orale, scritta, pittorica o come nel caso che vedremo oggi, scultorea. L’altro si diparte dalla parola o dall’opera per arrivare all’immagine o a nuove immagini. In altre parole l’uno è quello dello scrittore o dell’artista che immagina e cerca poi le parole e le tecniche esatte per restituire un’immagine quanto più verosimile a quella formatasi nel suo io, nella sua mente.

    L’altro è quello del lettore o dell’osservatore che ha la libertà ‘sorvegliata’ di partire da quelle lettere nere su fondo bianco o da un taglio di Fontana, una plastica di Burri, per costruire un realtà mentale e immergercivisi.

    Per il secondo di questi processi possiamo pensare al ‘cinema’ che si accende nella nostra mente durante la lettura di un libro o l’ascolto di una narrazione.

    Un esempio nell’opera di Sant’Ignazio di Loyola

    Immaginiamo allora di leggere questa parole tratte dagli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola

    «Il primo punto è vedere le persone, le une e le altre; e prima quelle sulla faccia della terra in tutta la loro varietà di abiti e di gesti, alcuni che piagono, altri che ridono, alcuni in pace altri in guerra, alcuni che nascono e altri che muoiono. Poi vedere e considerare le tre persone persone divine come sul loro soglio regale o trono della loro divina maestà, come guardando tutta la faccia e la rotondità della terra e tutte le genti in tanta cecità e come muoiono e van giù nell’inferno».

    Questo è un esempio bellissimo di richiamo all’immaginazione che ci porta ad un dialogo quasi dovuto con l’arte del medesimo periodo. Avete contato quante volte in due frasi Sant’Ignazio ha scritto la parola tutto? Ecco: lo scritto rimane limitato nei suoi segni, ma può suggerire e spingere ad una complessità e ad una varietà tale da risultare indeterminate. Nessuno leggerà una frase di un libro immaginandola nel medesimo modo. Ignazio di Loyola spinge il fedele «a dipingere lui stesso sulle pareti della propria mente gli affreschi gremiti di figure».

    E ora Bernini con il suo capolavoro Apollo e Dafne

    Ma certo Dante e Ignazio di Loyola sono ispirati da Dio, e me cojoni, magari tutti! Come anche il primo pittore iconografo della Chiesa: San Luca (secondo la leggenda).

    Eppure oggi ci soffermiamo su  un artista facendo un salto nel Seicento. Un genio del Barocco, uno dei momenti più felici per l’immaginazione artistica: Gian Lorenzo Bernini. C’è nel Bernini scultore un rapporto quanto mai perentorio, immediato tra immaginazione e forma. Chissà dove avrà letto di Dafne e Apollo, chissà quante volte creò nella sua testa quella composizione. Certo, non avrebbe potuto pensare una realizzazione migliore di quell’opera.

    La corsa del giovane apollo perdutamente innamorato della ninfa è una ricerca spasmodica, incauta e sconosciuta, perchè amore è mistero, pulsione. Apollo poggia su un piede solo si protende verso Dafne cingendo il suo grembo. E se la mano del Dio michelangiolesco infondeva lo spirito nell’uomo, il tocco dell’amore cieco di Apollo dà il via alla metamorfosi: Dafne chiede a suo padre il fiume Penèo di dissolvere la sua forma. Scendendo dall’ombelico le linee delle gambe della ninfa si fondono con la corteccia tramutandosi in un albero quanto mai suadente. Dalle dita dei piedi sgorgano radici che penetrano nel terreno.

    In alto il dramma della giovane che vuole sottrarsi a quell’amore cieco: il grido di lei e le braccia frondose che si rivolgono al cielo in cerca di luce e di salvezza. Bernini scrive sul marmo un attimo di quella storia, un momento di quella metamorfosi. Già metamorfosi… cambiamento. Quale paradosso scolpire sul marmo una metamorfosi, che follia scrivere su carta o dipingere su tela realtà mutevoli.

    Ecco allora che «l’immaginazione, usata come strumento di conoscenza da alcuni, come identificazione con l’anima del mondo da altri, risulta essere anche un repertorio del potenziale». Un vasto golfo o mondo, diceva Giordano Bruno dello spiritus phantasticus, mai saturabile di forme e di immagini. 

    Questo è il motivo per il quale l’arte avrà sempre un futuro, ecco perchè la letteratura, la poesia potranno avere sempre la speranza di guardare avanti. Questo mondo, questo golfo, sono via imprescindibile per qualsivoglia forma di conoscenza.

    L’immaginazione oggi

    E tuttavia, quale ruolo ha in questo golfo fantastico l’immaginario indiretto? Cioè l’insieme di immagini che la società e la cultura di massa ci propone? E soprattutto, si chiedeva Calvino «quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la civiltà dell’immagine? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in una società sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?».

    Pensiamo anche semplicemente alla vita e alla cultura dei nostri nonni, il quale patrimonio visivo era costituito dalle esperienze dirette e da un ridotto repertorio di immagini derivanti dalla cultura. Da qui nasceva la possibilità di dare forma ai propri miti personali. Oggi siamo invece sommersi di immagini, da una quantità tale di immagini che probabilmente nemmeno Calvino avrebbe mai immaginato. Pensiamo a quanto l’immagine preconfezionata predomini oramai sulla scrittura: non leggiamo più, comunichiamo per foto o audio. Gran parte delle immagini che ci troviamo di fronte sono inoltre ridotto all’osso, semplificate, mono-messaggio. Le immagini complesse non funzionano!

    In tutto ciò è sempre più difficile che una figura, un progetto, un’idea, acquistino rilievo. 

    Stiamo correndo seriamente il rischio di perdere la facoltà di ragionare per immagini, di chiudere gli occhi e vedere e immaginare, non solamente fantasticare, bensì costruire. Forse, e dico forse, a noi consumatori e produttori di immagini del nuovo millennio, spetta l’arduo compito di riscoprire questo valore imparando di nuovo ad immaginare veramente (perché non pensare ad una pedagogia dell’immaginazione?), facendo ben attenzione alle immagini e anche al mezzo che scegliamo. Perché il mezzo non è tutto, ma è molto.

    Carta, tela e marmo ci arrivano dal passato e si proiettano nel futuro…chissà se potranno dire altrettanto dei nostri schermi!

    Italo Calvino
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    L’ESATTEZZA – un memo di Calvino per il nostro tempo. Tra Leonardo e Leopardi

    Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità. Cinque valori, cinque principi scelti da Italo Calvino per le sue Lezioni Americane e come veri e propri propositi per il nuovo millennio. A millennio già avviato vediamo se queste parole parlano ancora a noi, mostrandoci una via. Lo faremo camminando in bilico tra letteratura ed arte. Speriamo di non cadere!

    Esattezza

    Maat è divinità dell’antico Egizio, dea dell’ordine e dell’armonia, della verità e dell’equilibrio, della legge e della moralità. La sua piuma era posta sul piatto della bilancia in controparte al cuore del defunto per conoscerne il peso dell’anima. Maat era colei che ordinava le costellazioni, responsabile dunque di un ordine oltre che sociale, naturale, cosmico.

    Già questa dea ci fa comprendere di come l’esattezza, sia un principio quanto mai centrale nella comprensione e nel racconto e quindi nella rappresentazione.

    Ma cosa intendiamo per esattezza in genere? 

    • Un disegno, una struttura di una qualsiasi opera ben fatto e ben calcolato. Il doriforo di Policleto, un’opera di Piero della Francesca, un taglio di fontana.
    • L’evocazione di immagini icastiche: nitide incisive, memorabili. Di quale esattezza è rivestito il bacio di Hayez, la libertà che guida il popolo di Delacroix, Guernica di Picasso. 
    • Un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione. Non solo una forma dell’opera, bensì un linguaggio nella realizzazione, una tecnica che sottende un pensiero. Forse in questo caso la cesta di frutta del Caravaggio, un’opera di Mondrian, la spasmodica e impossibile ricerca impressionista del ritrarre l’attimo. 

    Leonardo e Leopardi

    C’è tuttavia l’idea, l’impressione che un qualcosa di esatto, non possa di per sé essere poetico, evocativo. Potremmo prendere come esempio letterario Leopardi che nei suoi scritti e in particolare nello Zibaldone parlava di un linguaggio tanto più poetico quanto più vago e indefinito.

    Oppure sul fronte pittorico, Leonardo da Vinci, con la sua tecnica dello sfumato. Pensate solamente al volto della Gioconda, così spoglio di linee, di demarcazioni, o al paesaggio che fa da cornice alla donna. 

    La Gioconda, Leonardo da Vinci

    É bello notare, come ci ricorda Calvino, che il termine vago sia in italiano pure sinonimo di grazioso, attraente; e solitamente identificativo di una realtà mutevole.

    Leopardi, per farci gustare la bellezza dell’indeterminato e del vago, esige quantomai un’attenzione precisa nella composizione di ciascuna immagine, nella definizione dei dettagli, nella scelta cauta degli oggetti, delle parole e dei loro suoni.

    «Dolce e chiara è la notte e senza vento»

    In un unico verso il poeta restituisce l’identità di un momento di vita, facendo percepire al lettore l’intimità, la mitezza e il chiarore della notte. Inoltre un’esattezza sia compositiva che lessicale e sensoriale: Leopardi incastona il soggetto fra i tre attributi, spezzando la ripetizione della ‘e’ e movimentando la sonorità del rigo.

    Possiamo osservare le medesime caratteristiche e attenzioni in molti dei lavori artistici del maestro fiorentino.

    Leonardo e Leopardi, la loro arte e poesia testimoniano allora a favore dell’esattezza. Citando Calvino possiamo affermare che il poeta e il pittore nel vago possono essere solo il poeta e il pittore della precisione.

    È certo che poi l’arte non si fermi a ciò, ma che questo costituisca un punto di inizio o comunque di passaggio. L’anelito dell’indeterminato, che pervade la ricerca di questi due uomini, si tramuta nell’osservazione del molteplice, del formicolante e del pulviscolare. 

    Esattezza e indeterminato

    Ecco quindi che esattezza esiste nell’indeterminatezza. Nell’entropia si possono annidare zone di ordine, «porzioni di esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva». Ecco la letteratura e l’arte in genere, costituiscono queste eccezioni nelle quali l’esistente si cristallizza in forma e un senso si figura. L’arte in altre parole è la grande nemica del caso pur essendo del caso figlia.

    All’esattezza, che sia immaginaria, dipinta o scritta, mancherà tuttavia sempre un qualcosa, come molto manca a questo nostro discorso. Proprio questo senso di manchevolezza e di continuo labor limae emerge incessantemente negli autografi di molte opere scritte sotto forma di cancellature e correzioni. Ed è altrettanto nell’arte: pentimenti, ritocchi, aggiunte. Il linguaggio, in qualsivoglia sua forma, ha sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile.

    Il mostro marino di Leonardo

    Un esempio meraviglioso del Leonardo scienziato e della sua ‘battaglia con la lingua’ lo troviamo nel recto del foglio 715 del Codice Atlantico. Qui egli immaginò di osservare il movimento di un mostro marino del quale ebbe occasione di veder il fossile e utilizza dapprima queste parole:

    O quante volte fusti tu veduto in fra l’onde del gonfiato e grande oceano, col setoluto e nero dosso, a guisa di montagna e con grave e superbo andamento.

    Ci fu tuttavia qualcosa che non gli piacque, il termine ‘andamento’ forse, troppo generico ce che male si addiceva ad un cetaceo. Scrisse allora di nuovo l’immagine:

    E spesse volte eri veduto in fra l’onde del gonfiato e grande oceano, e col superbo e grave moto gir volteggiando in fra le marine acque. E con setoluto e nero dosso, a guisa di montagna, quelle vincere e sopraffare.

    Ma ‘volteggiare’ sminuiva la possenza di quell’animale. Compose allora l’ultima e definita descrizione, più accurata ed esatta:

    O quante volte fusti tu veduto in fra l’onde del gonfiato e grande oceano, a guisa di montagna quelle vincere e sopraffare, e col setoluto e nero dosso solcare le marine acque, e con superbo e grave andamento!

    Ecco come Leonardo inseguiva la realtà e immaginava. Egli è ben noto che preferiva il disegno alla parola (O scrittore con quali letter escriverai tu con tal perfezione la intera figurazione qual fa qui il disegno?), Leopardi invece prediligeva la parola al disegno.

    Si scelga l’arte che si vuole, purché non smettiamo anche noi di inseguire la realtà, giorno dopo giorno, non dimenticando il principio dell’esattezza. 

    Foglio 715 del Codex Atlanticus

    Alla prossima lezione americana!

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    Claude Monet e la serie delle Cattedrali di Rouen

    «Chiedo scusa ai professionisti, ma non posso resistere al desiderio di fare, per un giorno, il critico d’arte. La colpa è di Claude Monet» (Georges Clemenceau)

    E no caro mio Clemenceau, io la colpa non la darei solamente a Monet, poichè sono molti gli artisti che fanno parlare di loro, o meglio, che fanno sì che si possa e si debba in qualsiasi momento poter discutere di bellezza. Tuttavia almeno per oggi seguiamo i tuoi consigli e ci occupiamo di Monet, di Claude Monet e delle sue cattedrali di Rouen.

    Sono un maleducato, non vi ho presentato Clemenceau, monsieur Georges Clemenceau, un giornalista e il più celebre politico francese di inizio Novecento. Egli fu anche uno tra i più importanti estimatori del fenomeno impressionista. Ma veniamo all’opera, la serie di tele raffiguranti la cattedrale gotica di Rouen.

    Le cattedrali di Rouen

    Monet raffigurò ben 48 volte questa facciata con il portale Ovest e la tour Saint-Romain. Non lo fece scegliendo una visione complessiva e frontale, bensì secondo un’occhio ‘fotografico’, inquadrando parte del soggetto, in scorcio e lasciando al cielo un angolo di tela ritagliato tra i pinnacoli. Alla fantasia dell’osservatore spetta l’arduo compito di completare quelle visioni. C’è certamente in questa scelta l’essere impressionista di Monet, o meglio, il percepire l’influenza della fotografia nella visione e nella composizione delle immagini.

    La rappresentazione della luce

    Tuttavia rimane al fondo anche un qualcosa di più intimo e pratico: per l’artista che Monet fu le opere nascono in qualità di studi. C’è quindi un mettersi in discussione, una ricerca spasmodica della verità, non della verosimiglianza. In altre parole su queste tele vediamo raffigurata sì la vista da una delle finestre del suo atelier, ma quello che colpisce, fino a far parlare di rivoluzione, è il livello di astrazione alla quale Monet giunge nel voler rappresentare la luce. La cattedrale oltre ad essere soggetto diviene allora un mezzo per la rappresentazione.

    Monet aveva scelto di portare avanti questi studi nei mesi di febbraio marzo e aprile di due anni consecutivi, il 1892 e il 1893, affacciandosi su un angolo di città conosciuto a menadito, una finestra sul mondo o meglio sulla luce. 

    Marcel Proust e noi…

    E a noi, che viviamo più di un secolo dopo, nel mondo che fa che da sfondo a schermi, affacciandoci a finestre sì, ma di luce piatta e artificiale; le parole di Marcel Proust ricordano di essere immersi nella quotidianità, ma anche in qualcosa di gran lunga più importante di essa: la natura, la vita. 

    «Queste ore […] dove si scopre la vita di quella cosa fatta dagli uomini, ma che la natura si è ripresa immergendola in sé, una cattedrale, la cui vita, come quella della terra, nel suo doppio rivolgimento si sviluppa nei secoli e d’altra parte si rinnova e finisce ogni giorno».

    Una serie di venti cattedrali fu esposta nel 1895 nella Galleria di Durand-Ruel. E proprio in quell’occasione Clemenceau si rattristava di fronte all’assenza di un compratore che volesse acquistare non un dipinto, bensì l’intera opera. Poiché di un’opera unica per lui si trattava. 

    «Allora, con un ampio colpo d’occhio che abbraccia il tutto, avrete, in una folgorazione, la percezione della cosa fuori del comune, del prodigio. E quelle cattedrali grigie, che sono di porpora o di azzurro violentato d’oro; e quelle cattedrali iridescenti, che sembrano viste attraverso un prisma girevole; e quelle cattedrali azzurre, che sono rosa, vi daranno tutt’a un tratto la visione duratura non più di venti, ma di cento, di mille, di un miliardo di aspetti diversi della cattedrale di sempre nel ciclo immenso dei soli. Sarebbe la vita stessa, così come può essercene comunicata la sensazione nella sua realtà più intensa. Ultima perfezione d’arte fin qui mai raggiunta» (Georges Clemanceau)

    Ora dopo ora, pennellata dopo pennellata, tela dopo tela, ricordiamoci di rendere la nostra un capolavoro. 

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    Maria Lai, Opere e parole

    « – Buongiorno – disse la volpe. – Buongiorno – rispose educatamente il piccolo principe che si girò, senza però scorgere nessuno. – Sono qui – disse la voce – sotto il melo – . – Chi sei? – chiese il piccolo principe. – Sono una volpe – disse la volpe. – Vieni a giocare con me – le propose il piccolo principe.»

    Non è un caso se in questo XXI capitolo del breve capolavoro che Il piccolo principe è, troviamo alcune delle parole care all’arte di Maria Lai: una donna nata nel 1919 sull’ ’asteroide’ sardo di Ulassai. Lei: una ricamatrice di sogni, una rammendatrice di racconti, una filatrice di relazioni.

    L’arte come gioco

    «Vieni a giocare con me» dice il piccolo principe alla volpe. Il gioco. Centrale nella crescita e nello sviluppo del bambino e spesso dimenticato dagli adulti. Per Maria Lai, come per Saint Exupéry, L’immaginazione e quindi il ludus non possono rimanere prerogativa unica dell’infanzia, bensì si devono far strada attraverso l’arte o la letteratura e invadere gli osservatori e i lettori. Così arte e letteratura divengono un luogo, un gioco, in cui familiarizzare e crescere. I luoghi dell’arte a portata di mano (2002) costituiscono allora l’approdo di questa concezione. L’opera è composta da carte destinate a passare di mano in mano con su scritte frasi o parole che interrogano, spiegano, oppongono, affermano. Sono i luoghi e le persone che fruiscono dell’opera a dare all’opera vita e…viceversa. 

    I luoghi dell’arte a portata di mano

    ‘AddomesticARTE’ – Legarsi alla Montagna

    Ma continua poi la volpe…

    « –Sono così triste…Non posso giocare con te – rispose la volpe – non sono addomesticata. – Ah! Scusami – fece il piccolo principe. Ma dopo averci riflettuto su, aggiunse: – Che significa “addomesticare”-. – Significa una cosa che è stata purtroppo dimenticata, – rispose la volpe – significa Creare dei legami…-»

    Addomesticare, non è termine che usava Lai, ma possiamo trovare nelle sue opere quello che Saint Exupery intendeva per ‘addomesticare’: l’istanza, la volontà e il desiderio di ‘creare legami’. Tutto questo lo scoviamo nell’arte di Maria Lai e lo percepiamo tanto forte come probabilmente  mai nell’arte del Novecento. Siamo, ad esempio, nel 1981 quando viene realizzato ciò che non può dirsi opera e nemmeno performance, (poichè non ci sono attori né un copione), insomma un qualcosa che venne poi definito come il primo esempio italiano di ‘arte relazionale’: Legarsi alla montagna

    Lai propose: «leghiamo con un nastro una casa all’altra del proprio vicino, come quando si ha paura e si stringe la mano. Questa sarà l’opera». Più di 25 km di nastro legarono insieme l’8 settembre del 1981 l’intera Ulassai. Il nastro arrivò fin sulla montagna, riportando l’opera alle origini leggendarie da cui quest’idea nacque. Vi era infatti nella cittadina la leggenda di una bimba, la quale per portare cibo ad alcuni pastori, si rifugiò in una grotta e si salvò da una frana poichè vide e seguì un nastro azzurro che svolazzava di fuori. Legarsi alla montagna (come ogni opera d’arte) aveva però un codice ben preciso in quanto non tutte le relazioni sono uguali. È per questo che, qualora vi fosse discordia tra le famiglie, il nastro passava diritto, in caso di serenità o amicizia un nodo o un fiocco, in caso di amore occorreva intrecciarvi un pane.

    L’arte e il tempo: silenzio e attenzione – Le fiabe cucite

    «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Si riforniscono dai mercanti di cose pronte all’uso. Siccome non ci sono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se vuoi un amico, addomestica me!»

    Il tempo per conoscere. Il creare relazioni come il creare arte necessita di tempo. Ma come trovare e destinare tempo a qualcosa che di tempo ne richiede a bizzeffe, quando di là dagli schermi tutto è venduto come pronto? I nostri minuti, le nostre ore sono oggi più che mai materia di scambio, prodotto. Servono in tutto ciò due atteggiamenti amati da Lai: silenzio e attenzione. Imprescindibili per la composizione e la fruizione delle sue opere e in particolare per il processo che dà vita Fiabe cucite. Un’attenzione sinestetica, poichè quella fiaba è tessuta su tela, pagina dopo pagina. Un silenzio assordante, quello dell’arte del cucito, che è per Lai un movimento attento e tacito d’ago e filo per collegare punti, tracciando storie e facendo racconti.

    Tenendo per mano il Sole, Tenendo per mano l’ombra, Curiosape sono le fiabe cucite più celebri. Libri creati dall’artista con tessuti riusati. Libri che nascono quasi dal nulla, dalla pazienza del filare, del tessere e del cucire. Il filo è segno di un cammino che unisce luoghi e intenzioni: tessere diviene allora un processo per tenere per mano sole e ombra, un momento di relazione tra opposti, tra diversi. Scrive la poetessa Antonella Anedda: «Il suo è un concettualismo lirico dove le ragioni della ragione non dimenticano quelle del cuore». Un libro cucito non si legge, sta e richiede attenzione e silenzio. Non per forza comprensione, attenzione. 

    “Non importa se non capisci, segui il ritmo” disse Salvatore Cambosu a Maria Lai donandole un libro di poesia. Non è così la vita? non siamo chiamati a seguirne il ritmo? a percepirne l’ordito e inabissarci con i fili che ne tracciano il segno?

    Per comprendere a fondo quest’arte è allora necessario – ve lo dico in maniera sgrammaticata e bambinesca – attenzionare e silenziare o silenziarsi. Attenzionare perché non basta fare attenzione, bisognerebbe vivere in attenzione. Silenziare e silenziarci, non per ignorare ciò che si ha attorno, bensì per meglio comprendere le voci di bambini che sono in noi.

    L’arte ci prende per mano

    Ultimo step.

    «Per esempio, se tu vieni sempre alle quattro del pomeriggio, alle tre io già comincerò ad essere felice. Più si avvicinerà il momento, più mi sentirò felice. […] Ma se tu vieni quando ti pare, non saprò mai quando preparare il mio cuore… c’è bisogno di riti. – Che cos’è un rito? – disse il piccolo principe. – È una cosa purtroppo dimenticata – rispose la volpe. È ciò che fa di un giorno un giorno differente dagli altri, una certa ora, un’ora differente dalle altre ore».

    Quella di Maria Lai è un’arte quotidiana e frugale, in qualche modo rituale. Ed è attraverso questa ritualità che dona nuova vita alle cose.

    «Lai è una Parca che non taglia il filo, è una filatrice ma non una Accabbadora, il suo lavoro non smette di germogliare».

    Il rito mette radici nell’attenzione e nel silenzio, il rito si nutre di relazione. Nel 2003 Maria Lai realizza L’arte ci prende per mano. Un’opera costituita da una lavagna con su scritto in bella grafia la frase da cui l’opera prende il titolo, esposta nella piazza delle scuole del paese. 

    L’arte ci prende per mano, 2003, Ulassai

    Ecco l’arte prende per mano ciascuno, come una maestra fa con i bambini impauriti il primo giorno di scuola, si avvicina e ci porge la mano. Eppure, se al bambino come dice Lai «bastano i giochi, le fiabe,  il sillabario, e il ritmo; a [noi] aduli alle amarezze del mondo» e a questi tempi incerti, cosa occorre?

    Lai, la sua arte, propone nel suo essere una via che abbiamo visto passa per la creazione di legami (addomesticare), per il silenziarsi e l’attenzionare affinchè si riscoprano i ritmi e si possa tornare a sillabare, per la riscoperta dei riti per non rimanere (come direbbe Deandré) «più semplicemente dove un attimo vale un altro».

    E infine lungo questa via percepire un senso di responsabilità nella relazione nei confronti dell’altro, poichè come diceva Lai «L’arte è lo spazio di chi non occupa spazio nel mondo».

    «Si diventa per sempre responsabili di chi si addomestica. Tu sei responsabile della la tua rosa… – Io sono responsabile della mia rosa… ripeteva il piccolo principe per tenerlo a mente»

  • arte,  attualità,  Caravaggio,  musei

    Il riposo durante la fuga in Egitto di Michelangelo Merisi da Caravaggio

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    Oltre l’arte

    Ogni martedì un breve video, una pillola d’arte e di bellezza!

    Il racconto di oggi inizia nell’incertezza. Nella stessa incertezza che è propria di alcuni della vita e delle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un po’ come se il chiaroscuro pervicace delle sue tele si riverberasse, aspro e iconico, sulla persona e sull’artista. Questa tela, Il riposo durante la fuga in Egitto, è una delle prime opere a noi note del giovane pittore lombardo giunto a Roma. Fu probabilmente commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini (come sostiene Mina Gregori) e, di lì a pochi anni, entrò in possesso dell’accentratrice donna Olimpia Maidalchini (ve la ricordate? ne abbiamo parlato nel video dedicato alla Fontana dei Quattro fiumi del Bernini). Oggi è infatti possibile ammirarla a Roma presso la Galleria Doria Pamphili.

    Caravaggio giunse a Roma dopo aver percorso quelle che Roberto Longhi definì le ‘vie dei Campi’, conoscendo e facendo esperienza dell’arte dei fratelli Campi. Sopprattutto però, arricchendosi alla scuola dell’arte lombarda del Lotto, del Moretto, del Moroni e del Savoldo.

    Solo ripercorrendo queste ‘vie’ possiamo contestualizzare quella che altrimenti potrebbe sembrare una figura artistica estranea alla scena della pittura a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Così si avrà a comprendere un Caravaggio figlio del suo tempo, e non del nostro.

    Ma veniamo finalmente all’opera: una tela in formato orizzontale, seppure non troppo, la cui lettura la facciamo partire dal basso, dalla terra.

    Vediamo dapprima un selciato sulla destra coperto di erbe e, spostandoci verso sinistra, osserviamo il disporsi, forse un po’ troppo compendiario, di sassi e foglie secche. È tra questi oggetti che poggiano i piedi dei prtagonisti, sapientemente alternati alle vesti. piedi e panneggi, panneggi e piedi e… fiaschetta! immancabile! 

    E dai panneggi si sale alle ginocchia stanche del San Giuseppe, attorcigliandoci anche noi come il panno bianco attorno alla sinuosa figura stante dell’angelo e abbandonandoci poi al manto soffice della Vergine, anch’esso perso nella natura verdeggiante e rigogliosa.

    Saliamo ancora e in quest’ambiente bucolico, che ben poco ha del paesaggio egiziano e pare piuttosto uno scorcio di campagna romana: la Vergine si è assopita. Sfinita dal viaggio e nella continua cura del figlio, il figlio abbraccia e avvolge. Rimane un profilo di bambino di dolcezza indicibile e un volto in scorcio magistrale, che riporta alla mente la figura della Maddalena penitente. Quest’ultima è un’opera realizzata nello stesso anno (1597) e plausibilmente per lo stesso committente. Inoltre, dietro le vesti e il personaggio di Maria di Maddalena, si cela in entrambi i casi la giovane modella Anna Bianchini.

    Procedendo ancora verso sinistra la scena è interrotta da una nota di naturalismo puntuale: le ali rondine dell’angelo. Ali che Caravaggio riprese dal vero, dai modelli usati nelle rappresentazioni dell’epoca e, forse, dalla sua stessa memoria e dalle immagini degli angeli del Lotto nella pala di San Bernardino in Pignolo.

    L’angelo sembra suonare una pausa, con il volto e l’archetto leggermente sollevati dal violino. Lo sguardo è fisso sullo spartito, leggibile e riconoscibile. Si tratta di un brano del musicista fiammingo Noel Bauldewijn composto nel 1519 e ispirato al Cantico dei Cantici. Maria è qui madre e sposa.

    Riposo durante la fuga in Egitto, particolare

    Ed eccoci a San Giuseppe ‘leggio umano’: gli angeli di Caravaggio sembrano non avere memoria e necessitano sovente di leggii e spartiti. Guardando con attenzione ci accorgiamo che lo stesso modello fu prima San Matteo e Abramo e che siede ora su un sacco più volte usato dal Caravaggio per allestire le scene. Questi sono particolari che rendono Caravaggio vivo e tangibile. Che ci mostrano il dietro le quinte e un pittore che sceglie i suoi modelli, che li fa posare utilizzando oggetti di scena e, che in questo caso, ‘fa bosco’ nel suo studio.

    Il San Giuseppe è in questo dipinto estasiato dalla grazia del giovane angelo. C’è grazia di certo nella figura, ma grazia è in quello che egli suona e nelle promesse che questo brano porta con sé:

    Quanto sei bella e quanto sei graziosa, Carissima mia, in mezzo alle delizie. La tua statura somiglia a una palma e a grappoli somigliano i tuoi seni. Il tuo capo è simile al monte Carmelo […] Una torre d’avorio è il collo tuo.[…] Vediamo se la vigna è tutta in fiore, se i fiori partoriscono la frutta, se sono tutti in fiore i melograni. I seni miei in quel luogo ti darò.

    Quanto è umano questo Giuseppe che, non potendo gesticolare con le mani, lo fa coi piedi, regalandoci un brano di pittura eterno. 

    Giungendo nell’angolo in alto a sinistra ci accorgiamo che è il momento dell’asino (immancabile nell’iconografia della Fuga in Egitto). Costretto anche lui nel quadro fa da fondale ‘peloso’ al San Giuseppe, mentre spostandoci verso destra, diviene anch’esso protagonista col suo occhione diretto dritto verso lo spettatore. Di qui i capelli scompigliati del giovane, al quale Caravaggio ci ha abituato, e la natura, di querce e graminacee, fino a giù sulla destra dove si apre un paesaggio collinare. Il pittore dà all’intera composizione una collocazione reale e plausibile, un particolare nient’affatto scontato nella raffigurazione di una scena biblica. 

    Caravaggio e il suo committente scelsero di rappresentare il più tragico episodio dell’infanzia di Gesù mettendo in risalto la quotidianità e la familiarità delle relazioni. E, in questa quotidianità, dare spazio e valore a quell’unguento profumato che la musica, l’arte, la poesia possono essere nella vita di ciascuno.

    E, se l’angelo stesse veramente suonando un pausa, potremmo trarre da qui un vivido appiglio. Dovremmo cambiare prospettiva e vivere le pause delle nostre vite, questa grande pausa che il Covid sembra essere e che tutti accomuna, come pause ‘da suonare’ in attesa e con il fine della musica. Pause da suonare anelando al momento in cui l’archetto accarezzerà di nuovo le corde di quel violino. La mano, come sempre ci insegna Caravaggio, è la nostra!

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    William Turner, il pittore della luce

    Oggi vi racconto la storia di un ragazzo londinese che amava realizzare degli acquerelli e di suo padre che aveva deciso di esporre quelle opere su carta nella vetrina della sua bottega. Egli era un paziente fabbricante e venditore di parrucche, che immagine! Acquerelli e parrucche.

    È di un padre che credette in suo figlio e si affidò alla sua arte, un padre che continuava a dire: “William farà il pittore!”. 

    Londra fine del Settecento, quel giovanotto era William Mallord Turner.

    I passi di Turner

    Cerchiamo di tracciare brevemente il cammino a tappe che Turner compì nella sua vita e che lo portò alla scoperta e all’interiorizzazione della luce, fino alla sua tela più celebre Luce e colore appunto. È fondamentale comprendere la forza dell’esperienza di questo artista, il quale ridonò dignità e vita piena al paesaggio e che, in qualche modo, aprì la strada all’impressionismo. 

    Le prime opere di Turner

    Già studente presso la Royal Academy of Art nel 1796, a 21 anni, realizza il suo primo olio su tela: Pescatori in mare. L’opera è un notturno che lascia percepire le raffiche di vento e l’instabilità del moto ondoso. È un po’ proprio come quei pescatori che Turner si spingeva ogni anno oltre i confini della sua conoscenza, visitando luoghi e compiendo viaggi di scoperta, accatastando appunti, disegni bozzetti e schizzi. Occhi famelici erano quelli di Turner, che registravano sfumature e variazioni luministiche e che le rigettavano poi sulla tela, quanto più possibile senza filtri.

    William Turner, Pescatori in mare, 1796

    L’Italia di Turner

    Nel 1819 Turner decise di venire in Italia, un must, una tappa dovuta nei Grand Tour di quel secolo e per la formazione degli artisti. È in questo contesto, da Nord a Sud, dalla laguna veneziana fino al golfo di Napoli, che Turner scopre la luce mediterranea, incastonando su carte e tele colori. Ebbe pochi mesi per cogliere le meraviglie luministiche, un fatto che dimostra quanto l’animo di Turner fosso estremamente sensibile e preparato ad osservare ed accogliere.

    Un artista veneziano a noi contemporaneo, Davide Battistin, esprime nelle sue tele la medesima attenzione di Turner nel proporre varianti e variazioni infinite di una Venezia impastata di acqua e luce. Turner comprese le potenzialità di quelle luci in pochi mesi, realizzando opere di incantevole bellezza.

    I cieli di Turner

    Nel 1828-29 torna in Italia ed è un viaggio ancora una volta decisivo per l’elaborazione di nuove vie della sua arte che man mano si evolve, spaziando dall’arte di soggetto storico a quella di soggetto religioso, ma mai tralasciando il dato atmosferico, che sempre più prende il sopravvento. 

    Sono degli ultimi periodi le opere che più rivelano la grandezza di questo artista, e che meglio permettono di leggere il percorso alla luce di un’attenzione minuziosa alla composizione che seppure non risulti immediatamente percepibile c’è ed è conditio centrale dell’opera. Nato come paesaggista Turner si esercita a fondo sulla prospettiva, lasciando sempre più prevaricare la luce. Quella luce che non ha confini, e che secondo la Teoria di Goethe è una luce che plasma la realtà, che la svincola dalle regole. Turner riesce a catturare la luce e riproporla sulla tela accostando ai pigmenti le emozioni che essa ha suscitato. 

    Tra queste tele una delle più celebri è certamente La valorosa Temeraire, realizzata nel 1839. Qui, seppure valorosa, la Temeraire sarà sempre in secondo piano rispetto al tramonto che si svolge all’orizzonte! Qui, più che mai, emerge distinta e netta la distanza dalle marine dei predecessori e contemporanei Whitcombe, Swaine e Pocock.

    Luce e Colore. La teoria di Goethe

    Ma è con l’opera Luce e colore, la teoria di Goethe, realizzata nel 1843, che Turner giunge ad un livello altissimo di astrazione, nella quale i colori tornano ad essere luce e al tempo stesso materia. In un dipinto di piccole dimensioni l’artista riesce a conglomerare la forza incommensurabile della natura e, attraverso un movimento centrifugo, farla percepire allo spettatore. 

    William Turner, Light and Colour (Goethe’s Theory), 1843

    L’universo è caotico e Turner ce lo mostra nella composizione delle sue opere. Il colore è secondo la teoria di Goethe risultato dell’interazione tra la luce e l’oscurità e Turner ce lo fa comprendere nelle sue tele. Insomma questo pittore ci può dare un suggerimento su come guardare al reale, dimostrandoci che la luce può in ogni caso plasmare la realtà, un po’ come la determinazione: la sua determinazione da bambino nel voler diventare un pittore. 

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    Il dono del mantello, Giotto e (papa) Francesco.

    Ieri, oggi e domani.

    Tre momenti che trovano in Assisi un punto di congiunzione, in particolar modo in questi giorni piovosi di fine settembre e inizio ottobre. Ieri: Giotto nel ciclo pittorico dedicato alla vita di San Francesco nella sua basilica. Oggi: l’istallazione Eldorato realizzata da Giovanni de Gara sulla soglia della Specialis Ecclesia. Domani: La firma con la quale papa Francesco, venendo ad Assisi il 3 ottobre, emanerà la sua enciclica Fratelli tutti. Non una cosa a caso vediamo perchè…

    La commissione a Giotto

    Siamo alle soglie del Trecento (1297 ca.) , quando viene commissionato a Giotto e alla sua bottega uno dei più importanti lavori, in termini pratici e simbolici, di quell’epoca: la decorazione delle pareti della navata della basilica papale di San Francesco. Il programma iconografico doveva narrare per immagini e parole le storie della vita terrena e i miracoli dell’alter Christus, di colui che rinnovò la spiritualità cristiana facendosi minor. Il ciclo pittorico è inserito in una struttura prospettica di porticato che già Cimabue utilizzò nel transetto della medesima basilica, ma che Giotto innovò amplificandone la profondità e facendo convergere il punto di fuga al centro delle scene centrali di ciascuna campata. Tre o quattro riquadri per campata più due ai lati del portale, per un totale di ventotto scene.

    Il Dono del mantello

    La prima ad essere dipinta, sebbene sia la seconda in ordine di lettura del ciclo che diparte dall’altare e all’altare torna, è la celebre azione del Dono del mantello. Un episodio narrato nella Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio (testo bio-agiografico preso come riferimento per l’intero ciclo pittorico): 

    «Quando il beato Francesco si incontrò con un cavaliere, nobile ma povero e malvestito, dalla cui indigenza mosso a compassione per affettuosa pietà, quello subito spogliatosi, rivestì» (Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior 1, 2)

    Descrizione dell’affresco

    Giotto, Il dono del mantello, Basilica di San Francesco

    I personaggi sono collocati in primo piano, su una sorta di proscenio, quasi irrealmente sospesi in una composizione spaziale che nelle scene successive andrà assumendo maggior rigore e respiro. Al centro Francesco, ancora vestito di un prezioso blu (oggi sbiadito), sta donando il suo mantello ad un uomo. Non a un lebbroso, non a un mendicante. Bensì a un nobile caduto in disgrazia, questo raccontano le fonti e questo si evince da copricapo soppannato in vaio e dal rosso delle vesti. Sulla sinistra protagonista è un cavallo, un tempo bianco lucente, un colore alteratosi come i bianchi del ciclo di Cimabue a pochi passi da lì.

    In secondo piano, ancorati all’immagine bizantino-medievale della raffigurazione ‘a gradoni’ e privi di prospettiva, dominano due colli. L’uno (sulla sinistra) sul quale campeggia la città di Assisi; l’altro, in posizione opposta, con probabilmente raffigurata l’Abbazia di San Benedetto al Monte Subasio. Quest’ultimo un luogo di grande valore storico-artistico, che oggi purtroppo versa in stato di abbandono. I pochi alberi infine sono segnacolo dei boschi che dominavano allora questi colli. Il medioevo non si dilunga nella narrazione e rappresenta, a volte, la parte per il tutto: l’albero per il bosco. 

    La composizione e la testa ‘decentrata’

    Ma a livello compositivo il focus dell’opera è l’aureola di Francesco, sulla quale convergono le diagonali del calare dei colli. La testa del giovane però sembra fuggire da questo centro, perché è come se alla centralità statica preferisse il decentramento dell’azione, dando origine ad una serie di linee e movimenti che conferiscono naturalezza a gesti e sguardi. 

    Ad accentuare il movimento è anche la linea curva del collo del cavallo alle spalle di Francesco. Un animale status simbol e allusione al suo desiderato futuro da cavaliere, ripreso anche nella scena successiva del Sogno delle armi. Ma perché ritrarre questa scena e non l’abbraccio con il lebbroso, un momento centrale nella conversione del santo e da lui citato anche nel Testamento? 

    Di certo più si confaceva un soggetto simile ad una basilica che era vocata ad accogliere il papa e personaggi importanti e tuttavia agli spettatori istruiti di questa scena non poteva non tornare alla mente l’incontro con il lebbroso. Poiché proprio quest’ultimo, narrano le fonti, avvenne al di fuori delle mura cittadine, in un’ambiente probabilmente simile a quello qui raffigurato. Contaminazioni di fonti che dunque si fondono in questo affresco a testimonianza di una vita, la quale anche prima della conversione era destinata alla santità. 

    Eldorato ad Assisi

    Giovanni de Gara, Eldorato, Assisi

    Un procedimento simile è alla base dell’opera d’arte / istallazione Eldorato di Giovanni de Gara. L’artista ha rivestito in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato le porte della Basilica di San Francesco con coperte termiche. L’oro è simbolo di ricchezza, è il colore dei cieli medievali, è il pigmento della luce ed è il metallo delle porte della salvezza. Ma non è unicamente nel colore la suggestione, seppure lo possa essere esteticamente, ma è nel materiale termico, nella funzione di quei mantelli che abbracciano i profughi, i migranti, gli ultimi in cerca di un’eldorado. È un’immagine di enorme forza espressiva che che crea un cortocircuito nella nostra memoria di immagini, (per molti di noi) solo di immagini e non di esperienze vissute. 

    All’ingresso della basilica di colui che abbracciava il lebbroso, hanno trovato posto questi teli aurei, a memoria di un abbraccio sempre necessario e a ricordo della chiamata ad essere noi, oggi, Francesco.

    Questi due mantelli, quello della scena giottesca e i ‘teli’ di de Gara, sono e saranno presumibilmente al centro della nuova enciclica di Papa Francesco: Fratelli tutti. È la prima volta che un papa sceglie il nome Francesco ed è un fatto eccezionale che egli firmi un’enciclica al di fuori dalla Sede papale.

    Un papa che come Francesco nella scena del mantello sceglie al tempo stesso di decentrarsi e di rimanere centrato. Un decentramento che muove e spinge al prossimo, ma anche una centralità che gli permette di accogliere il ‘bagaglio’ dello spicchio di cielo che sovrasta la sua testa e donarlo, attraverso occhi e mani, all’altro.

    Un papa e due opere che ieri, oggi e domani, hanno parlato, parlano e parleranno di misericordia, proponendo un modus vivendi incentrato su questo dono. D’altronde misericordia è beatitudine, eldorado, salvezza.

    Papa Francesco apre la Porta Santa per il Giubileo della Misericordia