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Il canto XI del Paradiso: Francesco e madonna Povertà
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Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti
Uno dei cicli di affreschi più belli e significativi del Medioevo. L’espressione limpida della visione di una società attraverso la pittura di Ambrogio Lorenzetti. Scopriamo insieme i significati celati dietro l’Allegoria e gli effetti del buono e del cattivo governo.
In questi giorni si sta molto discutendo riguardo il ritorno alla normalità. Articoli, giornalisti, sociologi, si chiedono quando si potranno di nuovo intravedere la spensieratezza e al tempo stesso la vita frenetica del prima Covid-19. E più che altro si inizia finalmente a discutere su un tema che da tempo si era lasciato da parte, in favore di una navigazione alla giornata, e cioè: quale è la nostra rotta? Quale la società che vorremmo?
L’utopia non è certo benvenuta nel XXI secolo, soprattutto a livello politico, e se pensiamo alla città ideale di certo non pensiamo a quelle a noi contemporanee. Si tende piuttosto a fare un salto all’indietro, all’ideale rinascimentale, o alle illustrazioni e immaginazioni che artisti, scrittori e filosofi d’ogni epoca ci hanno lasciato.
Ma quello che andremo a scoprire oggi è una città ideale che, seppure sembri carezzare l’utopia, non pare poi così irrealizzabile. L’artista o colui che concepì l’opera, aveva ben chiaro come poter giungere a quell’obiettivo e volle dipingerlo, rendendolo eterno, sulle pareti del palazzo pubblico di Siena, nella celeberrima Piazza del Campo: il ciclo di affreschi dell’allegoria e degli effetti del buono e del cattivo governo.
Una breve storia di Siena
Tutto partì da Roma, almeno per la leggenda: Aschio e Senio, figli di Remo fuggirono da Roma e fondarono la città di Siena, il cui nome deriva appunto da Senio. Tutt’oggi il simbolo della città è la lupa senese, la stessa lupa che aveva allattato loro padre, la quale però viene qui raffigurata con il muso rivolto davanti a sé. In realtà, Siena, fu un semplice villaggio etrusco e tale sarebbe rimasto se non fosse passata di lì la via francigena. La città infatti, non avendo fiumi o sbocchi sul mare, sarebbe risultata alquanto isolata. Siena era dunque una città in via e già dopo il Mille risultava essere una tra le quindici città più importante d’Europa per commerci, tanto da entrare in aperto contrasto con Firenze.
La scelta del luogo: La sala dei Nove
Siena, la piazza del Campo e il Palazzo Pubblico. Quest’immagine della città è un quadro senza tempo di una cultura e di una società medievale che avevano qui il loro centro. Il vero cuore della civitas Virginis erano infatti due sale: La sala del consiglio generale, e la sala dei Nove.
Da un affresco realizzato nel 1315 collocato nella prima sala prendiamo le mosse per scoprire il ciclo del Lorenzetti nella seconda sala, ripercorrendo probabilmente il medesimo percorso che compì il più celebre tra i pittori della Siena dell’epoca. Al centro della grande Maestà di Simone Martini vi è la Vergine in trono con Cristo, il quale regge un cartiglio a monito dei duecento uomini che si riunivano in quella sala: “diligite iustitiam qui iudicatis terram”.
Il ciclo di affreschi dell’Allegoria e degli effetti del buono e del cattivo governo
Da questa medesima frase parte la narrazione nella sala successiva. Pochi anni dopo la realizzazione della Maestà del Martini, tra il 1337 e il 1338, all’interno della sala dei Nove (il fulcro del potere politico cittadino) venne realizzato l’affresco che oggi è una delle testimonianze più importanti della prima arte civile: l’allegoria e gli effetti del buono e del cattivo governo.
Gli affreschi del ‘Bene comune e della Pace’
La denominazione di questi affreschi è ottocentesca e, in quanto tale, rischia di non cogliere il nòcciolo del significato della rappresentazione. Ambrogio Lorenzetti di cui troviamo tutt’oggi la firma, integra le immagini con una canzone in sessantadue versi, la quale commenta il significato degli affreschi.
Immagini parlanti dunque. Da questi versi comprendiamo che non si tratta dell’allegoria di un ‘buon governo’, bensì di affreschi che raffigurano i valori del Bene Comune a della Pace. Basta cambiare la prospettiva: se la prospettiva è lo stato allora si parla di buon governo, ma se la prospettiva è la società allora allora si può (e si dovrebbe sempre più oggi) parlare di bene comune.
L’Allegoria del Bene comune o del buon governo
Iniziamo dalla parete Nord: la lettura può cominciare dalla figura femminile sulla sinistra, una regina, vestita di porpora e d’oro. Una iscrizione con le medesime parole della pergamena nell’affresco del Martini campeggia sulle sue spalle: è Giustizia. Sopra di lei, la Sapienza Divina che regge la bilancia. Su questa si compensano la Giustizia commutativa (che si basa su un principio di equità) e la Giustizia distributiva (che premia il buono e punisce il cattivo).
Dai due piatti della bilancia partono due corde che arrivano tra le mani della Concordia (cum cor– con lo stesso cuore, false etimologie), la quale ha una pialla poggiata sulle gambe per levigare gli attriti. Costei passa la corda a ventiquattro cittadini senesi i quali si legano spontaneamente tra loro. Sono loro a decidere a chi dare l’altro capo della corda, tenuto in mano dalla figura dimensionalmente più grande: un uomo, un re sembrerebbe, il Comune di Siena. Come lo capiamo? numerosi sono i simboli che ce lo illustrano: la veste soppannata in pallio, la lupa con i gemelli ai suoi piedi, la Vergine con il bambino sullo scudo.
Ecco allora che tutti quegli uomini che sono stati resi concordi dalla Giustizia e che a essa restano fedeli, fanno loro signore il Bene comune. Quest’ultimo deve però volgere gli occhi alle tre virtù cardinali (Fede Speranza e al centro la Carità) e rimanere al fianco delle quattro virtù cardinali e operative: Temperanza, Giustizia, Prudenza, Fortezza. A queste Ambrogio Lorenzetti aggiunse la Magnanimità e la Pace.
Pace risulta essere il cuore del dipinto poichè è il centro del desiderio umano. Una figura di indimenticabile bellezza e grazia.
Quando a questa corda non ci si lega, essa diviene prigione. Ed è questo il destino di coloro che scelgono di non farlo, scegliendo il male.
Gli Effetti del bene comune
Nella parete orientale della sala, dal lato del sol nascente, vengono raffigurati gli effetti di questo bene comune. La canzone al di sotto degli affreschi recita:
«guardate quanti ben vengan da lei e come è dolce vita e riposata»
Quella che si osserva è una città bellissima, non come le vuote e inesistenti città del Rinascimento, bensì viva e reale: è Siena.
Una comunità che mette al centro il bene comune è una comunità che cresce e che costruisce. In ogni angolo di questa città ci sono persone che lavorano: i tessitori, il notaio, i venditori di generi alimentari, coloro che studiano, il contadino e il pastore.
Un altro effetto è la presenza delle famiglie. Nella parte centrale in basso vediamo una sposa con il corteo nunziale, alcuni uomini parlano tra loro, i bambini giocano e le donne danzano.
Gli effetti del bene comune o, se si vuole, del buon governo, si estendono anche alle campagne, le quali divengono giardini popolati. In primo piano la porta della città e la via trafficata, teatro di commerci e della sfilata di un maialino di cinta senese. Sullo sfondo la campagna senese con tutte le attività produttive e i campi coltivati. Ancora oltre un magnifico paesaggio.
A campeggiare su questa parte di affresco, sopra la porta cittadina, è la figura allegorica di Sicurezza. Costei rappresenta l’ultimo sigillo di una città ben governata.
L’allegoria del bene proprio o del Cattivo Governo
Sulla parete occidentale, lì dove il sole muore, viene rappresentato l’esatto opposto: l’allegoria del bene proprio e gli effetti di questo sulla città e le campagne.
La situazione è qui completamente ribaltata. Si parte ancora da Giustizia, spogliata delle vesti, piangente e legata. Al bene comune si sostituisce un tiranno, colui nella comunità cerca il bene proprio. È raffigurato con attributi demoniaci e strabico. A guidarlo sono Avarizia, Vanagloria e Superbia, coloro che accecano chi cerca il bene proprio. A circondato sono invece i sei Vizi capitali, in opposizione perfetta alle sei virtù. Opposta alla bianca figura della pace, c’è la nera figura della Guerra.
Il tiranno infine, poggia i piedi su un caprone (la Lussuria).
Gli effetti sulla città sono di cifra opposta. Essa è cadente, in rovina. I soldati distruggono quanto trovano e a lavorare son solamente coloro che fabbricano armi. La distruzione e la desolazione permeano nelle campagne. Qui al posto di Sicurezza troviamo un’altra figura demoniaca: Timor. Egli tiene un cartiglio con su scritto:
«per volere il bene proprio in questa terra sommesse la giustizia a tirannia»
Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo.
Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo
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Il dono del mantello, Giotto e (papa) Francesco.
Ieri, oggi e domani.
Tre momenti che trovano in Assisi un punto di congiunzione, in particolar modo in questi giorni piovosi di fine settembre e inizio ottobre. Ieri: Giotto nel ciclo pittorico dedicato alla vita di San Francesco nella sua basilica. Oggi: l’istallazione Eldorato realizzata da Giovanni de Gara sulla soglia della Specialis Ecclesia. Domani: La firma con la quale papa Francesco, venendo ad Assisi il 3 ottobre, emanerà la sua enciclica Fratelli tutti. Non una cosa a caso vediamo perchè…
La commissione a Giotto
Siamo alle soglie del Trecento (1297 ca.) , quando viene commissionato a Giotto e alla sua bottega uno dei più importanti lavori, in termini pratici e simbolici, di quell’epoca: la decorazione delle pareti della navata della basilica papale di San Francesco. Il programma iconografico doveva narrare per immagini e parole le storie della vita terrena e i miracoli dell’alter Christus, di colui che rinnovò la spiritualità cristiana facendosi minor. Il ciclo pittorico è inserito in una struttura prospettica di porticato che già Cimabue utilizzò nel transetto della medesima basilica, ma che Giotto innovò amplificandone la profondità e facendo convergere il punto di fuga al centro delle scene centrali di ciascuna campata. Tre o quattro riquadri per campata più due ai lati del portale, per un totale di ventotto scene.
Il Dono del mantello
La prima ad essere dipinta, sebbene sia la seconda in ordine di lettura del ciclo che diparte dall’altare e all’altare torna, è la celebre azione del Dono del mantello. Un episodio narrato nella Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio (testo bio-agiografico preso come riferimento per l’intero ciclo pittorico):
Descrizione dell’affresco
Giotto, Il dono del mantello, Basilica di San Francesco I personaggi sono collocati in primo piano, su una sorta di proscenio, quasi irrealmente sospesi in una composizione spaziale che nelle scene successive andrà assumendo maggior rigore e respiro. Al centro Francesco, ancora vestito di un prezioso blu (oggi sbiadito), sta donando il suo mantello ad un uomo. Non a un lebbroso, non a un mendicante. Bensì a un nobile caduto in disgrazia, questo raccontano le fonti e questo si evince da copricapo soppannato in vaio e dal rosso delle vesti. Sulla sinistra protagonista è un cavallo, un tempo bianco lucente, un colore alteratosi come i bianchi del ciclo di Cimabue a pochi passi da lì.
In secondo piano, ancorati all’immagine bizantino-medievale della raffigurazione ‘a gradoni’ e privi di prospettiva, dominano due colli. L’uno (sulla sinistra) sul quale campeggia la città di Assisi; l’altro, in posizione opposta, con probabilmente raffigurata l’Abbazia di San Benedetto al Monte Subasio. Quest’ultimo un luogo di grande valore storico-artistico, che oggi purtroppo versa in stato di abbandono. I pochi alberi infine sono segnacolo dei boschi che dominavano allora questi colli. Il medioevo non si dilunga nella narrazione e rappresenta, a volte, la parte per il tutto: l’albero per il bosco.
La composizione e la testa ‘decentrata’
Ma a livello compositivo il focus dell’opera è l’aureola di Francesco, sulla quale convergono le diagonali del calare dei colli. La testa del giovane però sembra fuggire da questo centro, perché è come se alla centralità statica preferisse il decentramento dell’azione, dando origine ad una serie di linee e movimenti che conferiscono naturalezza a gesti e sguardi.
Ad accentuare il movimento è anche la linea curva del collo del cavallo alle spalle di Francesco. Un animale status simbol e allusione al suo desiderato futuro da cavaliere, ripreso anche nella scena successiva del Sogno delle armi. Ma perché ritrarre questa scena e non l’abbraccio con il lebbroso, un momento centrale nella conversione del santo e da lui citato anche nel Testamento?
Di certo più si confaceva un soggetto simile ad una basilica che era vocata ad accogliere il papa e personaggi importanti e tuttavia agli spettatori istruiti di questa scena non poteva non tornare alla mente l’incontro con il lebbroso. Poiché proprio quest’ultimo, narrano le fonti, avvenne al di fuori delle mura cittadine, in un’ambiente probabilmente simile a quello qui raffigurato. Contaminazioni di fonti che dunque si fondono in questo affresco a testimonianza di una vita, la quale anche prima della conversione era destinata alla santità.
Eldorato ad Assisi
Giovanni de Gara, Eldorato, Assisi Un procedimento simile è alla base dell’opera d’arte / istallazione Eldorato di Giovanni de Gara. L’artista ha rivestito in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato le porte della Basilica di San Francesco con coperte termiche. L’oro è simbolo di ricchezza, è il colore dei cieli medievali, è il pigmento della luce ed è il metallo delle porte della salvezza. Ma non è unicamente nel colore la suggestione, seppure lo possa essere esteticamente, ma è nel materiale termico, nella funzione di quei mantelli che abbracciano i profughi, i migranti, gli ultimi in cerca di un’eldorado. È un’immagine di enorme forza espressiva che che crea un cortocircuito nella nostra memoria di immagini, (per molti di noi) solo di immagini e non di esperienze vissute.
All’ingresso della basilica di colui che abbracciava il lebbroso, hanno trovato posto questi teli aurei, a memoria di un abbraccio sempre necessario e a ricordo della chiamata ad essere noi, oggi, Francesco.
Questi due mantelli, quello della scena giottesca e i ‘teli’ di de Gara, sono e saranno presumibilmente al centro della nuova enciclica di Papa Francesco: Fratelli tutti. È la prima volta che un papa sceglie il nome Francesco ed è un fatto eccezionale che egli firmi un’enciclica al di fuori dalla Sede papale.
Un papa che come Francesco nella scena del mantello sceglie al tempo stesso di decentrarsi e di rimanere centrato. Un decentramento che muove e spinge al prossimo, ma anche una centralità che gli permette di accogliere il ‘bagaglio’ dello spicchio di cielo che sovrasta la sua testa e donarlo, attraverso occhi e mani, all’altro.
Un papa e due opere che ieri, oggi e domani, hanno parlato, parlano e parleranno di misericordia, proponendo un modus vivendi incentrato su questo dono. D’altronde misericordia è beatitudine, eldorado, salvezza.
Papa Francesco apre la Porta Santa per il Giubileo della Misericordia -
La Maestà di Siena – Duccio di Buoninsegna
Dalla bottega, al duomo al Museo dell’Opera.
Iniziamo da una citazione di una poetessa contemporanea che ci introduce ai significati più profondi della Maestà di Siena di Duccio di Buoninsegna:
«Maria accetta l’amore in letizia e il figlio in letizia, sa che non sarà mai suo, come tutti i figli di questo mondo, e sa che deve anche tenerselo in cuore, e con il figlio anche il patimento del figlio. D’altra parte Gesù che aveva la sua strada non poteva obbedire al cuore terreno di Maria che voleva per sé tutta la carne del figlio»
Queste parole di Alda Merini ci introducono all’opera di oggi, che il nove giugno del 1311, veniva portata a furor di popolo con una solenne processione dalla bottega del celebre artista Duccio di Buoninsegna alla chiesa di Santa Maria Assunta.
Gesù, ci dice la poetessa, aveva la sua strada. La Merini coglie il nesso, l’anello di congiunzione tra la realtà umana e la realtà figurata di molte madonne e opere medievali; ciò che ancora oggi difronte ad un’opera di questo genere, ci permette se non di comprenderla a pieno, quantomeno di intuirne o di partecipare emozionalmente al suo significato. L’iconografia bizantina dell’odigitria, cioè della Madonna che indica e si appresta con il braccio al bambino, è protagonista di molte delle icone e delle tavole medievali. Maria è colei che conduce, colei che mostra la via: la strada di Cristo, ma anche Cristo come strada per la salvezza.
E questo, la città di Siena lo sapeva bene: perché infatti commissionare un’opera così grande da dedicare alla Vergine?
Il Duomo di Siena: il Duomo della Vergine
Siena, come accennato in un precedente video dedicato all’Allegoria del Buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti.
SCOPRI: Allegoria del Buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti
Siena è civitas Virginis, la città della Vergine, dedicata e protetta. Questa tradizione prese forza nel 1260 all’indomani della celebre Battaglia di Montaperti: un’aspra guerra che vedeva la città sfidarsi con la Guelfa e potente Firenze e vincerla. Siena aveva di lì in poi arricchito il suo duomo di dedicazione mariana, con opere pregiatissime: dal rilievo sulla lunetta del portale principale attribuito a Giovanni Pisano, al pulpito di Nicola Pisano, alla Madonna del Voto di Dietisalvi, fino alla vetrata del rosone absidale disegnata da Duccio di Buoninsegna, all’Annunciazione di Simone Martini. Per non parlare poi del progetto magniloquente e incompiuto di un nuovo grande duomo che avrebbe fatto delle attuali navate il nuovo transetto.
In questa temperie di commissioni a Duccio venne chiesto nel 1308 di realizzare una nuova tavola per l’altare maggiore del Duomo. Duccio, secondo molti allievo di Cimabue, se non da lui ‘creato’ come dice il Longhi, fu l’incontrastato caposcuola della pittura senese del Trecento. Fu un artista raffinato e celebre che influenzò la pittura presente e futura.
«Di Duccio è il modo che, muovendo da Cimabue, riguaina la forma come in un aulico astuccio eburneo»
Descrizione dell’opera: la Maestà di Siena di Duccio di Buoninsegna
Veniamo finalmente all’opera: un polittico, una macchina composta da più tavole montate ad imitazione di un’architettura. Questa ne è la ricostruzione, poiché nel 1711 fu smontato per soddisfare la volontà di decorazione di due altari, e di lì fu disperso per i diversi musei del mondo. Tuttavia, una buona parte, è oggi conservata al Museo dell’Opera del Duomo di Siena.
La tavola è opistografa, e cioè dipinta su entrambi i lati. Duccio organizza infatti una complessa scelta e narrazione di eventi, guidata forse dall’aiuto del Vescovo della città: Ruggero da Casole. Ma è magnifico pensare a come questa tavola dovesse apparire all’interno del contesto originario e non nel Museo dove oggi si trova.
Il fronte
Duccio infatti sapeva che la parte frontale doveva essere visibile alle persone che accedevano alla navata e per questo il fronte ospita trentadue figure intere di grandi dimensioni. Nel pannello centrale sono raffigurati la Madonna in trono con il Bambino, resa dimensionalmente più grande, seguendo un criterio gerarchico fortemente radicato nelle raffigurazioni sacre. Ai suoi lati, partendo dal basso, i quattro santi protettori della città inginocchiati: Ansano, Savinio Crescenzio e Vittore. In prima fila partendo da sinistra Santa Caterina, San Paolo e San Giovanni evangelista, che trovano come loro speculari Sant’Agnese, San Pietro e San Giovanni Battista. Le altre venti figure sono immagini angeliche. Di queste, le sei figure ai lati del trono ripropongono l’atteggiamento degli angeli inseriti sempre da Duccio di Buoninsegna nella Pala conservata presso la Galleria Nazionale dell’Umbria, realizzata dal pittore senese per la Chiesa di San Domenico poco tempo prima.
La predella, la parte bassa del polittico della Maestà di Siena di Duccio di Buoninsegna, doveva comporsi di 7 scene della vita della Vergine legata indissolubilmente a quella del Cristo Bambino, alternate a figure di profeti. Nella parte alta, campeggiavano 10 mezze figure di apostoli con, ancora sopra, storie della vita della Vergine dopo la morte di Cristo.
Il retro
Nel verso della tavola troviamo invece un vero e proprio ciclo pittorico con ventisei scene della Passione e Resurrezione di Cristo. Duccio realizzò per questa parte circa 80 figurazioni inserite in paesaggi stilizzati e in architetture che guardano all’esperienza Cimabuesca e al Giotto spazioso, senza tuttavia perdere la loro eleganza gotica e non lasciando mai allo spazio di fare da protagonista. Simmetria, ma anche varietà, tradizione nella scelta dell’iconografia, ma anche innovazione nel renderla umana e vera. Se nel retro a cogliere l’attenzione sono le espressioni e i movimenti dei personaggi raffigurati, sul fronte della tavola il trono della Vergine (in cui Duccio porta sulla tavola i materiali veri del Duomo) e l’incarnato delicato e umano della Madonna e del Bambino rimangono il fulcro della visione. Cristo e la Vergine emergono come immagini che si apprestano ad essere reali e focus dell’intera navata, poiché ci ricorda Alda Merini:
«Maria diede la carne del Figlio agli altri, la diede ai suoi nemici, affinché se ne cibassero, affinché l’uomo Dio diventasse cibo e sostanza di tutti i giorni»
La processione e la consacrazione della Maestà di Siena di Duccio di Buoninsegna
In tre anni, senza aiuti, l’intero polittico della Maestà di Siena di Duccio era pronto per essere trasportato in Duomo con una solenne processione per le vie della sua città. Racconta un testimone:
«E in quello dì, che si portò al Duomo si serrero le buttighe, e ordinò il Vescovo una magnia , e divotta compagnia di Preti, e Frati con una solenne pricisione accompagnatto da Signori Nove, e tutti e gl’Uffizialli del comuno, e tutti e popolari, e di mano in mano tutti e più degni erano appresso a la detta tavolla co’ lumi accesi in mano, e poi erano di dentro le donne, e fanciulli con molta divozione, e accompagniorno la detta tavola per infino al duomo facendo la intorno al chanppo, come s’usa, sonando le chanpane tutte a gloria per divozione di tanta nobile tavolla, quanto è questa. La qual tavolla fece Duccio di Nicolò dipentore, e fecesi in chasa de’ Mucatti di fuore della porta a stalloregi. E tutto quello si stette a orazione con molte limosine»
La devozione insomma portò quel polittico sull’altare. I senesi accompagnarono per strada la Vergine che, come tante altre Madonne e donne, indica ancora oggi la via.
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