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    Il padiglione Italia per Expo 2020 Dubai: quale bellezza?

    BEAUTY CONNECTS PEOPLE

    Il padiglione Italia per Expo 2020 Dubai: un crocevia di esperienze, relazioni, discipline e competenze che, tutte insieme tendono alla bellezza. Ma, quale bellezza?

    Quale bellezza?

    Quale bellezza unisce le persone?

    È su questa domanda che ci giochiamo non solo e non tanto il successo ad Expo 2020 Dubai, ma il futuro di un intero paese (e se vogliamo dell’umanità) che, se non si volge con sguardo rinnovato allo studio e al sacrificio dai quali germogliano scienza e cultura, è destinato a galleggiare sulla superficie di un bello circoscritto ai quadrati di instagram.

    La scelta della parola Bellezza affonda le sue radici nei significati originari del termine ‘bellus’ (forma antica di diminutivo di ‘bonus’). Bello è bene e verità secondo l’accezione platonica poi ripresa dal cristianesimo e da esso posta a fondamento di gran parte del patrimonio storico artistico di cui ci sentiamo ‘figli’. 

    Una bellezza ‘trinitaria’ dunque, che vive e si alimenta della complessità, dell’incontro, di continue e costanti connessioni, di discussioni e passi verso l’oltre. Una bellezza che ha a cuore la profondità e necessita di tempo, di sacrificio e di relazione. 

    Alberto Burri, cretto nero

    Questo è ciò a cui tendono, per vie e ambiti differenti, le opere, le creazioni, le riproduzioni e le idee che costellano il percorso del padiglione Italia a Expo 2020 Dubai.

    Dal sipario di corde realizzate con plastica riciclata, alla quasi perfezione dell’orologio atomico; dall’inedito sguardo del David di Michelangelo riprodotto magistralmente in scala 1:1, al cretto e ai cellotex di Alberto Burri

    Infine, quindi, una bellezza consapevole, che renda vibratile il cuore come le corde che attorniano il padiglione mosse dal caldo vento di Dubai. Perchè bello è ciò che dèsta l’animo.

    Una bellezza che con questa consapevolezza e queste certe radici, guardi al gigante futuro con lo sguardo giovane, sfidante e deciso del David.

    E mi pare che, con la recente notizia di voler destinare lo spazio del padiglione alla funzione di centro di restauro altamente specializzato per le opere dei paesi in guerra, stiamo già risollevando lo sguardo!


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  • Il cretto di Gibellina di Alberto Burri - PODCARD
    arte contemporanea,  Novecento,  podcards

    Il cretto di Gibellina di Alberto Burri – PODCARD

    Con la solità brevità dei nostri Podcards, scopriamo oggi una delle opere di Land art più celebri e intense della storia dell’arte italiana e mondiale: il cretto di Gibellina.

    Il 14 gennaio 1968 un violento sisma cambiò per sempre la vita degli abitanti della Valle del Belice, tra questi luoghi vi era la città di Gibellina. Il sindaco Ludovico Corrao scelse quest’ultima come luogo simbolo della rinascita post-terremoto .

    Per questa ricostruzione e riqualificazione vennero chiamati grandi artisti. I più celebri sono Mario Schifano, Andrea Cascella, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Franco Angeli, Leonardo Sciascia, Ludovico Quaroni, Franco Purini ed infine Alberto Burri.

    Alberto burri e ludovico Corrao a Gibellina

    Quest’ultimo scelse di realizzare un’opera di gran lunga differente rispetto a quelle dei suoi colleghi.

    «Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.»

    Alberto Burri
    Cretto di Gibellina dall'alto
  • arte,  arte contemporanea,  Novecento

    Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso

    Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso è l’opera che spalanca le porte all’arte del Novecento. Realizzata nel 1907 e oggi conservata al MoMa di New York è la tela simbolo di quello che sarà, l’anno successivo, iniziato a definire ‘cubismo’. Tre nomi, insieme a quelli di Picasso e Braque (i padri di questa arte), ci aiuteranno a comprendere la genesi di quest’opera e a entrare in questa tela mostruosa. 

    Mostruosa, nel senso letterale e originario del termine: un qualcosa che crea scalpore, un prodigio, un ammonimento. Sì perchè fu proprio stupore, spesso tendente a sdegno, che quest’opera provocò nel 1907, in chi la vedeva. E tra gli altri è importante ricordare lo sprezzo del critico Louis Vauxelles il quale, nel 1908, scrivendo di ‘bizzarries cubistes’, andò a definire quel nascente movimento: il cubismo.

    Les demoiselles d’Avignon e Henri Matisse

    Les demoiselles d’Avignon, Picasso

    Il primo nome che ci aiuterà a penetrare al dentro dell’opera è quello del celebre artista e amico di Picasso Henri Matisse. Egli sembra avere un ruolo chiave nell’esperienza artistica del cubismo in genere (aveva descritto alcune tele di Georges Braque come composte da “piccoli cubi”), ma anche nell’elaborazione de Les Demoiselles d’Avignon. L’artista infatti aveva acquistato una tela di Cézanne raffigurante tre bagnanti e, Picasso, sicuramente ebbe modo di osservarla e poterla studiare. Il tema delle bagnanti, soggetto classico per la raffigurazione di nudi senza la generazione di scandali e clamori, era allora molto praticato.

    Les demoiselles d’Avignon, Picasso
    Trois baigneuses – three bathers, 1879-1882 Canvas, 53 x 55 cm

    La classicità e Les demoiselles d’Avignon

    Sembra che Picasso partì proprio da qui per l’elaborazione della sua tela. Ne sono sintomo e segnale la nudità dei corpi e la similarità delle pose di due tra le cinque donne raffigurate. Si noti, tra l’altro, anche il forte richiamo alla classicità, alla Venere di Milo, o al prigione michelangiolesco. Ma Picasso riprende dall’iconografia delle bagnanti anche il drappo che scende lateralmente e che, la prima donna pare scansare con entrambe le mani per entrar nel dipinto. 

    Les demoiselles d’Avignon

    Dunque un tema già trattato in pittura e non poco. Solo che Picasso lo decontestualizza, traendolo fuori dalla sua aurea innocua e antica e facendo di quei cinque corpi, che dai bozzetti pare dovessero essere accompagnati da due uomini, delle prostitute di uno dei più celebri bordelli (il d’Avignon appunto) di Barcellona. Picasso, come molti degli artisti a lui contemporanei, ritrae la società del suo tempo, ne coglie le contraddizioni e ne carpisce gli umori.

    Les demoiselles d'avignon Picasso bozzetto

    Picasso e la scultura africana

    Sempre a Matisse, e certamente alla temperie culturale che pervadeva la Parigi di inizio Novecento, è collegata la fascinazione da parte di Picasso per la scultura africana. Max Jacob ricorda che Picasso scoprì le prime sculture proprio nell’atelier di Matisse e che, il giorno dopo averle vedute iniziò a realizzare alcuni disegni di teste con un solo occhio. L’arte tribale africana, con le sue linee schematiche e geometriche entra anche nelle Demoiselles e in numerose altre opere dello stesso periodo. Maschere, acconciature, tagli, colori.

    Cézanne e Les demoiselle d’Avignon

    Cézanne è il secondo nome, già in parte citato, che ci permetterà di comprendere gli studi di Picasso su quest’opera. Partiamo da una delle citazioni più celebri che illustra la volontà dell’arte di Cezanne: 

    «Bisogna trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono».

    Cézanne

    Una sorta di natura geometrizzata, comprensibile e quindi sintetizzabile in forme semplici. Questo percepiamo nelle tele di Cezanne, e in parte lo osserviamo anche nelle opere cubiste, dove però, avviene un ulteriore passaggio. Un passo dettato dalla volontà di comprendere a fondo la realtà, tralasciando il visibile, scomponendola e riportandola sulla tela mostrandone tutte le facce. Non più dunque un pittore che osserva e ritrae un mondo composto di solidi, bensì un artista che gira attorno alla realtà la comprende nel complesso e tenta di restituirlo per intero in barba alle regole della verosimiglianza e del naturalismo.

    «Il cubismo ha obiettivi plastici. Non lo consideriamo solo uno strumento per esprimere ciò che percepiamo con l’occhio e con la mente, sfruttando tutte le possibilità che appartengono ai requisiti essenziali del disegno e del colore. Ciò è stato per noi una fonte di gioie inaspettate, una fonte di scoperte»

    Pablo Picasso

    Nel dipinto vi è infatti una pluralità di prospettive e punti di vista, una compresenza che fa sì che non venga più percepito come una finestra che dà su un bordello, bensì come uno studio, umano e scientifico, nella sua frammentazione di ornato bidimensionale.

    E infine…Albert Einstein e Les demoiselles d’Avignon.

    L’ultimo nome è quello di Albert Einstein. Non certo perchè i due si conoscessero, ma per una profonda casualità entrambi iniziarono a percepire e comprendere l’importanza della variabile tempo all’interno dei propri studi. Il tempo viene considerato in qualità di quarta dimensione, nella scienza (con un articolo del 1905 nella rivista «Annalen der Physik») come nell’arte. Picasso e il cubismo, in altre parole, non rappresentano l’istante, bensì l’evoluzione della loro conoscenza del reale, tanti momenti di studio, di visione e di comprensione, restituendo allo spettatore un’esperienza (non un immagine) della realtà.

    Le cinque donne e la natura morta

    Les demoiselles d’Avignon, Picasso

    Ecco allora le cinque cinque donne in pose differenti. Dalla figura rappresentata di profilo sulla sinistra, che richiama alla mente i profili egizi, lo sguardo passa alle pose statuarie delle due figure centrali per poi posarsi sulle due ultime donne africanamente ‘trasfigurate’, l’una in piedi l’altra accovacciata.

    Cinque prostitute non erotiche, donne che mostrano la contraddizione di un’epoca

    E in questa lettura da sinistra a destra non si dimentichi la natura morta alla base del dipinto. Un simbolo che ci ricorda quanto l’uomo oggi come allora, non sia altro che parte di quella natura e forse, che sia l’uomo invece nell’errore a chiamare morta ciò che più d’ogni altra cosa è manifestazione di vita.

    Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard
    Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard

    Picasso e Apolinnaire: la poesia dedicata al pittore

    A Picasso

    Non ho più nemmeno compassione di me
    E non so come esprimere il tormento del mio silenzio
    Tutte le parole che avevo da dire si sono mutate in stelle
    Un Icaro tenta di alzarsi fino ai miei occhi
    E portatore di soli ardo al centro di due nebulose
    Che cosa ho fatto alle bestie teologali dell’intelligenza
    In passato i morti riapparvero per adorarmi
    E io speravo la fine del mondo
    Ma arriva la mia col sibilo d’un uragano
    Ho avuto il coraggio di guardare indietro
    I cadaveri dei miei giorni
    Segnano la mia strada e li piango
    Alcuni si putrefanno nelle chiese italiane
    O in boschetti di limoni
    Che fioriscono e insieme fruttificano
    In ogni stagione
    Altri giorni hanno pianto prima di morire in taverne
    Dove fiori di fuoco rotavano
    Negli occhi d’una mulatta inventrice della poesia
    E le rose dell’elettricità s’aprono ancora
    Nel giardino della mia memoria
    Osservo il riposo domenicale
    E lodo la pigrizia

    Come come ridurre
    L’infinitamente piccola scienza
    Che m’impongono i sensi
    Uno è simile alle montagne al cielo
    Alle città al mio amore
    Somiglia alle stagioni
    Vive decapitato la sua testa è il sole
    E la luna il suo collo mozzato
    Vorrei provare un ardore infinito
    Mostro del mio udito tu ruggisci e piangi
    li tuono ti fa da chioma
    E i tuoi artigli ripetono il canto degli uccelli
    li tatto mostruoso m’ha penetrato m’avvelena
    I miei occhi nuotano lontano da me
    E gli astri intatti sono i miei àrbitri senza prova
    La bestia dei fumi ha la testa fiorita
    E il mostro più bello si desola
    Nel suo sapore d’alloro
    Alla svolta d’una via vidi dei marinai
    Che a collo nudo ballavano al suono d’una fisarmonica
    Ho regalato tutto al sole
    Tutto meno la mia ombra
    Le draghe le mercanzie le sirene mezzemorte
    Sprofondavano nella bruma dell’orizzonte i trealberi
    I venti spirarono coronati d’anemoni
    O Vergine segno puro del terzo mese.

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  • arte,  attualità,  Donne d'arte,  Novecento

    Frida Kahlo una donna simbolo della sua epoca

    «La rivoluzione è l’armonia della forma e del colore e tutto esiste, e si muove sotto una sola legge: la vita»

    Frida Kahlo

    Frida Kahlo è, forse, la più celebre pittrice del XX secolo. 

    Una donna forte, indipendente e appassionata segnata da una vita travagliata e piena di dolore. Un’esistenza raccontata attraverso immagini dalle forme semplici eppure emotivamente travolgenti.

    Una donna che nonostante tutto ha sempre celebrato e gridato  il motto VIVA LA VIDA!

    Scopriamo un po’ di lei attraverso alcune sue opere, parole e video…

    Autoritratto con il vestito di velluto (1926)

    L’incidente

    «L’incidente avvenne su un angolo, di fronte al mercato di San Juan, esattamente di fronte. Il tram procedeva con lentezza, ma il nostro autista era un ragazzo giovane, molto nervoso. Il tram, nella curva, trascinò l’autobus contro il muro.»

    Frida Kahlo
    L’autobus (1929)
    La colonna rotta (1944)

    Frida e Diego

    «Ho subito due gravi incedenti nella mia vita…il primo è stato quando un tram mi ha travolta e il secondo è stato Diego Rivera.»

    Frida Kahlo
    Ospedale Henry Ford (o il letto volante) 1932

    Le due Frida

    «Dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio.»

    Frida Kahlo
    Pensando alla morte (1943)

    «Non rinnego la mia natura, non rinnego le mie scelte, comunque la si guardi sono stata fortunata nella vita.»

    Frida Kahlo
    L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico) io, Diego e il signor Xoloti (1949)
    Viva la vita (1954)

    «Tanto assurdo e fugace è il nostro passaggio per il mondo, che mi rasserena soltanto il sapere che sono stata autentica, che sono riuscita ad essere quanto di più somigliante a me stessa mi è stato concesso di essere.»

    Frida Kahlo
  • arte,  Donne d'arte,  Novecento

    Margherita Sarfatti: la donna del Novecento italiano

    Mario Sironi tra il 1916-17 ritrasse, in atteggiamento intimo e famigliare, Margherita Sarfatti. Donna colta, poliglotta , emancipata e contraddistinta da una curiosità intellettuale fuori dal comune, curiosità, che la rese la donna del Novecento italiano.  

    Margherita Grassini Sarfatti

    Margherita Grassini nacque l’8 aprile 1880 in una ricca famiglia ebrea e si formò con i migliori maestri: Antonio Fradeletto, Pompeo Momenti e Pietro Orsi. Con essi ebbe il privilegio di instaurare un vero dialogo culturale, formando un suo pensiero critico, politico e artistico. 

    Giovanissima, a soli diciotto anni, incontrò un altro protagonista della Venezia semita, Cesare Sarfatti, avvocato e impegnato attivamente nel socialismo. Contro il parere dei genitori di lei, i due si sposarono nel 1898.

    La carriera di giornalista

    Insieme, decisero di trasferirsi a Milano (1902) in via Brera 19, ed è proprio in questa città, nella quale aleggiava un fermento culturale e sociale, che ebbe inizio la carriera della giovane donna. Fin da subito, sotto la guida del marito, iniziò a scrivere per l’Avanti della domenica, la versione socialista del borghese Corriere, battendosi per l’uguaglianza e la parità di genere e proponendo, quello che venne definito, un femminismo pratico. Dal 1909 fu nominata responsabile della rubrica di critica d’arte dell’Avanti! Giornale socialista

    Sarfatti Iniziò a farsi largo nell’ambiente culturale milanese, frequentando il salotto socialista per eccellenza guidato dalla signora Anna Kuliscioff e Filippo Turati. 

    Da via Brera i coniugi si trasferirono in corso Venezia 93. Qui trovarono un vicino di casa non di poco conto: Filippo Tommaso Marinetti. Fu proprio in questi anni (1910) che egli insieme a Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Gino Severini e Giacomo Balla diedero vita ad un’arte intesa come manifesto di profondo sentimento di malcontento e rivolta: il Futurismo. 

    Umberto Boccioni, Controluce (1916) Collezione Sarfatti

    Sarfatti, entusiasta sostenitrice di questa nuova tendenza artistica, decise di mettere a disposizione il suo salotto al civico 93 per riunire “fra mobili di stile, quadri e oggetti d’arte i più importanti artisti e intellettuali milanesi nelle serate del mercoledì.

    L’entusiasmo della donna per l’arte futurista si placò nel 1911 quando, di ritorno da Parigi, Umberto Boccioni contaminò il suo modo di dipingere con le sperimentazioni cubiste di Picasso. Questo fatto fu interpretato dalla scrittrice come una perdita da parte dell’arte italiana di visione personale e autonomia. 

    L’incontro con Mussolini e i venti di guerra

    Nel 1912 l’incontro con Mussolini non implicò solamente l’inizio di un legame sentimentale, ma l’avvio di un effettivo sodalizio politico e culturale. Entrambi provenienti da ambienti socialisti, se ne allontanarono per fondare la rivista il Popolo d’Italia, di cui la Sarfatti fu redattrice per la sezione letteraria e artistica. Di lì a poco scoppiò la guerra. 

    Seguirono anni duri, contraddistinti dalla perdita al fronte dell’amato figlio Roberto e dell’amico fraterno Umberto Boccioni. La collaborazione avviata con Mussolini la portò ad essere una delle figure più attive nella fondazione del Partito Nazionale Fascista (1921).

    Il dolore e la paura innescati dalla guerra generarono nel mondo culturale l’esigenza di riprendere la grandezza della tradizione artistica del passato e renderla eterna. Fu dunque auspicato e sempre più invocato da alcuni un “ritorno all’ordine”, un’arte che potesse parlare agli uomini, al popolo.

    Novecento

    È proprio in questo clima di affermazione del bello e di armonia, contrapposte alle dissonanze dell’arte cubista, espressionista e futurista che, Margherita Sarfatti, si farà portavoce di un gruppo di sette artisti: Mario Sironi, Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig. In un primo momento anche Ubaldo Oppi prese parte a questi artisti che si incontrarono nella galleria di Lino Pesaro a Milano, per unirsi sotto il nome di Novecento (1922).

    Sarfatti riconosceva in questi artisti il ductus di un’arte moderna originata dalla classicità, ma rinnovata e mai sterile, rivolta verso “la più vera delle verità, la bellezza”. 

    La Biennale del 1924

    Così scrisse di loro alla Biennale di Venezia del 1924:

    Questi nostri pittori, si può obiettare, non toccano ancora il punto dove lo sforzo dell’arte si dissolve e scompare tutto nella magia evocatrice delle immagini e dei sentimenti. A tale vertice non è dato giungere d’un tratto. La preoccupazione della tecnica, come di un mezzo e di un linguaggio ancora troppo greve, in parte soverchia – è vero – la cura delle cose da dire: ma solo attraverso la conquista di un linguaggio tecnico nobilmente ordinato e perspicuo, i sentimenti e i concetti possono trovare espressioni di umanità e di limpida bellezza” 

    Divenuta la signora di Milano, ella s’impegnò ancora di più sul fronte politico nella propaganda fascista. Lo fece come direttrice della rivista di partito Gerarchia, attraverso la pubblicazione di articoli e discorsi mussoliniani per la stampa estera, e la scrittura della biografia DUX (1925). In ambito artistico, nonostante le critiche ricevute alla Biennale del 1924, si impegnò in una vera e propria campagna di “colonialismo estetico”, aprendo le porte di Novecento ad un ampio numero di artisti della nuova generazione.

    Novecento italiano e la rottura con Mussolini

    Manifesto mostra Novecento italiano (1926)

    Furono invitati ad esporre al Palazzo della Permanente di Milano (1926) centoquattordici artisti. Questo fu un importante evento artistico e politico, al quale partecipò anche Benito Mussolini come presidente onorario del Comitato. Il movimento Novecento sarà di qui in poi Novecento Italiano. 

    Attraverso questo Sarfatti mirò ad esprimere i valori del nazionalismo fascista. Propose e aspirò non tanto a “un’arte per l’arte”, bensì a un’arte che potesse essere strumento di propaganda politica ed essa stessa incarnare i valori del fascismo. Suo malgrado Mussolini non era della stessa opinione. Con una lettera del 1929 ripudiò tale connessione politico-artistica e rese chiara in maniera ufficiale la rottura con la donna che fino a quel momento fu la sua più grande sostenitrice e alleata. 

    La lettera di Mussolini

    Lettera di Mussolini a Margherita Sarfatti

    «Gentilissima Signora,
    leggo un articolo nel quale ancora una volta voi tessete l’apologia del cosiddetto ’900, facendovi alibi del Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più energica e di tale mio sentimento giungerà segno oggi stesso ai direttori dei due giornali. Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco! Il Fascismo più prudente e meno messianico, ha ipotecato soltanto 60 anni, non tutto il secolo! Del quale ancora 71 anni sono da trascorrere. Antipatico è poi, l’attacco evidente ad un ministro in carica, attacco che precede la solita sviolinata nei miei riguardi; sviolinata che voi, sopratutto voi, vi dovreste perennemente proibire. Poiché voi non possedete ancora l’elementare pudore di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre invenzioni artistiche o sedicenti tali, non vi stupirete che alla prima occasione e in un modo esplicito, io preciserò la mia posizione e quella del Fascismo di fronte al cosiddetto ’900 o a quel che resta del fu ’900. 

    Distinti Saluti Mussolini
    Roma 9 luglio 1929-VII »

    Margherita Sarfatti, l’America, l’esilio e la morte

    Sarfatti, allontanandosi a sua volta dall’ideologia fascista sempre più vicina alla Germania hitleriana, iniziò ad essere tagliata fuori dagli ambienti politici e culturali, mentre il suo salotto in corso Venezia divenne luogo di incontro per numerosi antifascisti. 

    Nel 1934 partì alla volta degli Stati Uniti dove scrisse l’America ricerca della felicità (1937). La promulgazione delle leggi razziali (1938) la costrinse fu all’esilio fino al 1947. Ritornata in Italia si ritirò nella sua casa a Cavallasca, il Soldo, luogo d’ispirazione per molti artisti come : Umberto Boccioni, Mario Sironi, Giuseppe Terragni, Ada Negri, Riccardo Bacchelli, Alfredo Panzini, e Gabriele d’Annunzio. 

    Qui nei suoi ultimi anni solitari Margherita scrisse un’autobiografia intitolata “Acqua Passata”(1955) scegliendo di omettere dalla narrazione il rapporto sentimentale con Mussolini.

    Il 30 ottobre 1961 la grande signora del Novecento, che tanto fece parlare di sé, morì in silenzio, dimenticata e all’ombra di un rapporto sentimentale che la fa tutt’oggi ricordare come “l’altra donna di Mussolini”.

    Margherita Sarfatti, 1925-1930.Mart, Archivio del’900, Fondo Sarfatti.

  • arte,  attualità,  musei,  Novecento

    «Non vi è che la Maternità» l’opera di Gaetano Previati

    Oggi vi parlerò di maternità! Non in senso generale, tranquilli, ne saprei poco nulla! Vi parlerò dell’opera Maternità, di Gaetano Previati.

    Un fregio, una composizione stretta e lunga che ci conduce per mano fuori dal reale, poichè i fregi – benchè reali – erano destinati ai templi dedicati alle divinità. Le figure angeliche presenti nell’opera non conducono tuttavia in altre dimensioni, si prostrano invece ad una dimensione più che mai umana.

    Quello che vediamo è infatti un momento di quotidianità materna: l’allattamento. Un tema svolto in molte epoche artistiche e qui riproposto in una composizione non dissimile, della donna e del bambino. Previati inserisce trovate pittoriche sempre nuove nel loro guardare e reinterpretare modelli passati ma, con un qualcosa di diverso, che è segno distintivo dell’epoca e dell’artista: il sentimento. 

    C’è difatti in questa donna, e in questi angeli contemplanti il mistero tutto umano della maternità, il torpore sereno di un momento intimo e silente. Sentiamo il fruscio del vento che sussurra ai fiori, gigli e anemoni (presi dalla tradizione cristiana), che smuove le piume delle ali angeliche e volteggia tra le fronde dell’albero di melarancio. Quest’ultimo probabilmente, simbolo di fertilità.

    «Sono invischiato a rendere nella figura principale del quadro tutta l’intensità dell’amore materno spogliato dalle cianfruscole che hanno servito per mille dipinti – e in un renderlo partecipe del movimento delle altre figure del quadro perché ne risulti un tutto omogeneo che impedisca qualunque altra interpretazione dell’occhio dell’osservatore – ma che difficoltà Dio mio. 

    Ti sei tu ben formato l’idea di ottenere da una tela una voce che annienti il vostro temperamento, i vostri gusti, la vostra educazione e vi faccia prorompere dall’animo il grido che l’universo, la terra, la vita è nulla…. Non vi è che la maternità?!!! Anche sulla tela non vi devono essere né colori né forme – né cielo né prati – né figure di uomini né di femmine ma un fiat che dice adorate la madre…»

    La prima esposizione alla Triennale di Milano

    La difficoltà dell’artista nel comporre l’opera, di cui ci sono testimoni molti bozzetti e il carteggio con il fratello Giuseppe, fu in realtà specchio della critica che questo dipinto suscitò. Accettata per una manciata di voti alla Triennale milanese del 1891 (la triennale del debutto del divisionismo italiano) fu oggetto di giudizi contrastanti che tendevano a rifiutare ‘l’idealità’ di questo dipinto in favore di una pittura verista e indagatrice del reale. In quella medesima sala della triennale vi era un’altra opera di simile tema: Le due madri di Giovanni Segantini. una tela questa caratterizzata sì da una tecnica simile o quantomeno fondata sui medesimi principi di quella di Previati, ma che non fuggiva dal reale.

    Un pittore idealista

    Previati dal canto suo, fu sempre scansato, in quanto nel suo essere pittore vi era anche l’essere poeta.

    Scriveva in un articolo il suo gallerista Grubicy: «Per il Previati la tavolozza è soltanto sorgente di poesia: per lui ogni colore è sentimento, è idealizzazione di immagine, è via a entrare nell’impenetrabile. A questo alto concetto egli tutto sacrifica. Chi non accetta questi propositi del pittore, chi non si sente chiamato a entrare in queste sottilità poetiche non guardi il quadro del Previati. Ci perderà la testa; e pretenderà che la testa l’abbia perduta il pittore. Egli ha veduto per sentire non ha veduto per vedere».

    E continuava l’artista: «Ma se il mio cervello è tormentato da un’idea astratta, mistica, indefinita nelle sue parti, la cui bellezza estetica risiede appunto in questa sua indeterminazione simbolica; se nel mio cervello questa idea, col cercare di incorporarsi e di manifestarsi, respinge con insistenza ogni immagine positiva che richiami alla realtà, e non trova la sua espressione se non mantenendosi in una specie di visione complessiva fluttuante, sintetica, di forme e di colori, che lascino appena intravedere il simbolismo o ideismo musicale e quasi sopratterreno del mio pensiero;

    perché non mi sarà permesso di tentare la ricerca di un suono, d’una formula più tassativamente appropriata, invece di valermi delle solite parole, dei soliti strumenti, delle solite formule, che servirebbero bensì ad esprimermi secondo le consuetudini, ma non mi soddisfano, perché parmi che qualsiasi richiamo alla realtà debba contrastare e distruggere la natura dell’immagine complessiva che io accarezzo nella mia mente?

    Dunque cercherò qualche mezzo che mantenga al mio pensiero il suo carattere vago, oscillante di visione o di sogno indeterminato che sintetizzi forme, linee e colore, in modo da escludere qualsiasi divagazione sui dettagli, costringa la mente del riguardante a lasciarsi cullare dal simbolismo decorativo complessivo della mia idea».

    Il Previati divisionista

    Previati sperimenta dunque la tecnica nuova del divisionismo, che trae le sue fondamenta dalle teorie ottiche sulla rifrazione della luce e sulla scomposizione del colore di Chevreul e Rood. Il divisionismo diveniva la tecnica ideale per rompere con gli schemi e le convenzioni del realismo percepite da Previati come un limite. E tuttavia non fu solamente un mero mezzo, poichè alla sua base vi era un concetto nuovo di pittura: ‘la pittura di idea’.

    Si noti la differenza sostanziale, che non è solo tecnica, tra la prima redazione di maternità e l’opera compiuta. Nella prima c’è ancora un’adesione ai modi della pittura scapigliata di Tarquinio Cremona, dalla quale lo stesso Previati aveva attinto in gioventù. 

    La tela e la fortuna del pittore

    La grande tela subì nel corso del tempo lo stesso destino che in qualche modo toccò all’intera opera pittorica di Previati. Pochi anni dopo l’esposizione venne inviata a Parigi, per poi tornare ed essere lasciata in depositi pubblici, poiché l’artista non potè pagare il trasporto e il noleggio di un magazzino. Venduta all’asta ad insaputa di Previati fu riacquistata per sua volontà dal Gallerista Grubicy, suo sostenitore, per poi essere per lungo tempo dimenticata. Soltanto negli ultimi decenni la figura di questo pittore è stata progressivamente recuperata quale personalità chiave della sua epoca. E Maternità permane un’opera programmatica e apicale nella sua arte, la tela che gli permise di affermare:

    «Ho passato la linea che separa la tenebra dalla luce».