• Il cretto di Gibellina di Alberto Burri - PODCARD
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    Il cretto di Gibellina di Alberto Burri – PODCARD

    Con la solità brevità dei nostri Podcards, scopriamo oggi una delle opere di Land art più celebri e intense della storia dell’arte italiana e mondiale: il cretto di Gibellina.

    Il 14 gennaio 1968 un violento sisma cambiò per sempre la vita degli abitanti della Valle del Belice, tra questi luoghi vi era la città di Gibellina. Il sindaco Ludovico Corrao scelse quest’ultima come luogo simbolo della rinascita post-terremoto .

    Per questa ricostruzione e riqualificazione vennero chiamati grandi artisti. I più celebri sono Mario Schifano, Andrea Cascella, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Franco Angeli, Leonardo Sciascia, Ludovico Quaroni, Franco Purini ed infine Alberto Burri.

    Alberto burri e ludovico Corrao a Gibellina

    Quest’ultimo scelse di realizzare un’opera di gran lunga differente rispetto a quelle dei suoi colleghi.

    «Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.»

    Alberto Burri
    Cretto di Gibellina dall'alto
  • arte,  attualità

    Le sette parole di Cristo sulla croce attraverso l’arte

    Le sette parole di Cristo attraverso sette crocifissioni. Parole e opere per entrare al dentro della passione di Cristo, con gli accadimenti, i simboli e i personaggi chiave di questi momenti di croce. 

    I . «Padre, perdona loro, poiché non sanno quello che fanno».

    Le prime parole di Cristo sulla croce non sono per sè, bensì per il Padre e per coloro che «non sanno ciò che fanno». In questo, sta tutta la drammaticità di un accadimento: l’uomo che non riconosce il Dio sceso in terra e lo crocifigge.

    Poi scopriremo che sarà la croce, in realtà, a portare salvezza, ma poi. Ora è tragedia.

    Siamo ad Assisi, sul finire del Duecento quando Cimabue affresca sul transetto della Basilica di San Francesco questa concitata crocifissione. Separazioni e ferite lacerano la composizione di questo affresco. Gli angeli del padre, contrapposti agli uomini, uomini che tra loro sono marcatamente divisi in coloro che piangono e coloro che vogliono ciò che accade.

    La cerniera che ancora una volta è chiamata a sanare, a guarire e unire queste lacerazioni è il corpo di Cristo, dimensionalmente più grande e lasciatosi andare come ‘biscione doloroso’. Una linea curva e conciliante in un mondo di linee nette e spezzate.

    Le sette parole di Cristo, Cimabue Crocifissione di Assisi
    Cimabue, Crocifissione del transetto sinistro della Basilica di San Francesco ad Assisi.

    A questa drammaticità, contribuisce l’alterazione dei bianchi, relegando gli originari colori di questa crocifissione al passato. Ed è proprio lì, nel passato di ogni giorno, che la morte dovrebbe collocarsi. 

    San Francesco e il perdono

    Un personaggio: Francesco. Egli, chino ai piedi della croce, la adora fino a baciarla. Dal «Padre» sussurrato o urlato di Cristo passiamo all’«altissimo onnipotente bon Signore» colui che solo può, come richiesto da Cristo, perdonare. Allora, scrive Francesco, «Lodato sii mio Signore, per quelli che perdonano in nome del tuo amore, e sopportano malattie e sofferenze»

    La passione è ciò che unisce tutti in questo affresco ed è la sola strada stretta attraverso la quale passa il perdono.

    II. «In verità, ti dico, oggi tu sarai con me in paradiso».

    Passione è parola che ci accompagnerà e che ritroviamo manifesta anche nella splendida crocifissione del primo quarto del Cinquecento di Gaudenzio Ferrari nel Santuario della Madonna delle Grazie a Varallo

    Le sette parole di Cristo, Crocifissione Gaudenzio Ferrari Varallo
    Gaudenzio Ferrari, storie di Cristo, Varallo.

    Qui tra lo svolgersi ‘barocco’ dei sentimenti e tra i turbini di vesti e disperazione sorge un qualcosa di autentico. Certo, meraviglioso il corpo del Cristo, ma soffermiamoci sul volto. Pace, serenità, beatitudine. Non è il volto di un crocifisso, ma al contempo non è ancora il viso di un risorto.

    Il pittore delinea qui i tratti di una promessa d’amore e di colui, l’amato, che a quella promessa s’affida e che, in quella promessa, muore.

    Le sette parole di Cristo, Crocifissione Gaudenzio Ferrari Varallo
    Gaudenzio Ferrari, Corcifissione, Varallo.

    In questa verità, Gesù, proferisce parole di salvezza: «Hodie mecum eris in paradiso».

    Hodie è un oggi eterno, circolare, che è pronunciato ogni qual volta ci si mette in ascolto di parole di amore. È l’incipit di una promessa che continuamente si rinnova e si nutre del mecum, con me. La passione torna ad essere destino comune e in particolare lo è, in quel momento, per i due ladroni. Sono infatti le due loro figure a sintetizzare le due strade che si aprono agli uomini: non porgere l’orecchio alla Parola oppure farlo e vivere secum nella promessa d’amore.

    Due vie che portano l’una alla disperazione, a un’esistenza nella quale il male è giogo e spinge verso terra, l’altra conduce alla speranza, che tramuta la croce in beatitudine (sull’esempio di Cristo), e che apre al futuro sarai e al paradiso.

    Le sette parole di Cristo attraverso l’arte!

    III. «Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre.

    «Padre» abbiamo sentito nella prima delle sette parole di Cristo, «madre» e «figlio» sentiamo ora.

    Sembra non esserci crocifissione senza questi due personaggi comprimari: Maria e Giovanni. I primi due a piangere Cristo, i due che forse comprendono più d’ogni altro la passione di quell’uomo appeso alla croce. L’una perché madre carnale e viene su questa tavola di Van Der Weyden raffigurata come donna avvolta in un abito sovrabbondante, che pare un enorme lenzuolo, quasi un sudario, da cui emergono il volto piangente e il corpo in procinto di abbandonarsi e cedere al dolore insostenibile della croce. A lei è rivolto il viso del figlio, al quale non riesce a dare risposta. Come può una madre guardare gli occhi chiusi d’un figlio?

    L’altro personaggio è Giovanni, il «discepolo che Gesù amava», colui che già sapeva perché annunciatogli nell’ultima cena. In quest’opera, Giovanni a mani levate volge lo sguardo alla croce creando una relazione circolare tra i personaggi. 

    Le sette parole di Cristo, crocifissione Van der Weyden
    Van der Weyden, Crocifissione.

    Eppure la vera relazione che viene qui a esplicitarsi è quella tra la Madonna e Giovanni, due figure che sono lì in funzione della croce, che fondano il loro rapporto sulla croce e scoprono di essere l’uno per l’altro madre e figlio: massima espressione dell’amore terreno.

    In questo riconoscersi madri e figli ci si rivela avvolti delle stesse vesti di salvezza di Cristo, incorrotte, sopra le quali né lacrime né sangue possono posarsi. 

    IV. «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?»

     Per comprendere al fondo queste parole e la scelta di quest’opera (la crocifissione del pittore tedesco Mattias Grünewald per l’altare di Issenheim) dobbiamo volgere gli occhi alla più piccola eppure potentissima figura umana qui raffigurata: la Maddalena. Una donna che nel suo dolore è quasi un tutt’uno con la terra, l’ovale sformato dalla contrizione, le mani intrecciate nella supplica ineffabile.

    Mettiamoci nei suoi panni: sta assistendo alla visione di corpo teso e lacero, sul quale la corona di spine è la minima pena. Maddalena vive quella tragedia come inevitabilmente lo fa lo spettatore dell’opera.

    Si vede un uomo morire in modo osceno e nulla si può fare per aiutarlo. Perché abbandonarlo così? Perché se è veramente figlio di Dio Egli, Dio, permette tutto ciò?

    «Eli eli Lammà Sabactani»
    «Dio mio dio mio perché mi hai abbandonato».

    Ecco, Cristo si fa la medesima domanda d’ogni uomo. È un punto di tangenza essenziale, che ci permette di partecipare a quel dolore, di sentirlo sulla nostra carne, di rivedere nelle nostre vite tante piccole crocifissioni, di scorgere, in coloro che attorno a noi soffrono, tanti crocifissi. Chiederci poi, Dio mio, ma come è possibile tutto ciò? 

    Nel corpo torto e snodato di questo Cristo che con la sua passione torce anche la croce e le anime delle figure sulla sinistra, non troviamo speranza. Non la troviamo apparentemente nemmeno in questa quarta parola. 

    La figura di Giovanni Battista nella crocifissione

    Una figura infine, quella di Giovanni Battista, è irrealmente presente alla scena (poichè già morto). Giovanni non si piega e al suo fianco sono tracciate in rosso delle parole: «Egli deve crescere e io invece diminuire». Sono parole riferite alla nascita di Cristo, al sole che dal giorno vicino al solstizio di inverno è destinato a crescere.

    Qui Cristo sembra e si sente più che mai diminuito.

    Qui Cristo è prossimo al suo più grande splendore.

    Qui, in queste parole del Battista, c’è l’esaltazione della croce: la debolezza della creatura abbandonata che cede alla grandezza del Creatore.

    Le sette parole di Cristo attraverso l’arte!

    V. «Ho sete»

    Attraverso queste sette parole ci viene rivelata quella che dovrebbe essere la forma mentis del cristiano. Nelle prime parole Cristo pensa all’altro: a coloro che non comprendono eppure fanno, al vicino che chiede aiuto, alla madre e al fratello. Solo con la quarta parola egli inizia a far trapelare il pensiero sulla sua condizione di condannato a morte e ora, con questo «sitio» al suo essere uomo, a un suo bisogno. Gesù, nell’ultimo suo momento, chiede agli uomini ciò che loro avrebbero dovuto chiedere a lui, acqua viva.

    Marc Chagall Crocifissione bianca
    Marc Chagall, Crocifissione bianca

    Chissà quale tipo di sete era quella di cui si racconta? chissà quale la fonte desiderata?

    Nella celebre e incantevole Crocifissione bianca, Marc Chagall raffigura un Cristo solo in mezzo ad una moltitudine di vicende, accadimenti, simboli. Non vediamo ladroni, niente più vergine e Giovanni. A rendere la scena tragicamente dinamica è la contemporaneità di soprusi, stermini, violenze, tra villaggi e sinagoghe distrutte, memorie di pogrom, barche di profughi, madri disperate con i propri bambini.

    Cristo e la sua croce sono soli. Nessuno porge l’orecchio. La scala poggiata al legno di quello strumento di morte è vuota. Cristo si rivolge questa volta non al ladrone, non alla madre, si rivolge all’uomo: «ho sete». Ma l’uomo non risponde o se lo fa, agisce schernendolo.

    Un Cristo dimenticato che sperimenta la condizione di molti esclusi. La scala rimane lì, vuota, pronta ad essere salita in ogni momento per coloro che vorranno portare acqua (se questo chiede) a Cristo e ricevere indietro una pioggia d’acqua viva.

    Cristo ha sete della sete d’ogni uomo. 

    VI. «Tutto è compiuto»

    Ti ho amato di amore eterno 

    (cf. Ger 31, 3)

    In questa crocifissione del Museo del Prado di El Greco, parte di quello che doveva essere un complesso ciclo cristologico di cui questa, nemmeno a dirlo, doveva costituirne il centro, percepiamo uno sfaldamento della realtà, un momento in completo divenire. Cristo si sta letteralmente svuotando del suo sangue, dalle sue piaghe si aprono cascate. I tre angeli con la Maddalena fanno di tutto perché questo non giunga a terra. Il legno della croce è segno da rivoli rossi.  

    È l’attimo della liberazione! Cristo sussurra il «tutto è compiuto».

    Crocifissione El Greco

    L’uomo è stato finalmente svuotato. L’uomo è pronto a perdere definitivamente la propria vita. 

    Percepiamo però in quest’opera una tensione, la stessa forza che è celata nelle parole di Cristo: Consummatum est. C’è l’impatto tremebondo del fallimento, della morte, dell’umana finitudine. È come se Cristo dicesse: “Non posso amarti di più, non posso darti altre prove del mio amore”.

    Allo stesso tempo c’è, in chi timidamente difronte a tanta desolazione resiste nel credere, la verità del ‘tutto è compiuto’ come annunciato, e la speranza del ‘tutto è compiuto’ per un futuro che sarà, per un domani che metterà radici su questo oggi.

    Il chicco di grano se non passa dalla morte, non porterà frutto. 

    Umano e spirituale, terra e cielo. Allora, con gli occhi fissi ai rivoli di morte che scendono dalla croce, ci lasciamo avvolgere in questa tensione che trepidamente accenna a salire.

    VII. «Padre, nelle tue mani, consegno il mio spirito».

    Il sole si oscurò, la cortina del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù gridando a gran voce disse: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito». Detto questo spirò. 

    Ed è silenzio. Si entra in un buio silenzioso. Fin qui tutto era cresciuto, la passione non faceva che salire in quella continua oscillazione tra umano e divino. Ora tutto è fermo, freddo, il mondo sta.

    Diego Velazquez, Cristo crocifisso
    Diego Velazquez, Cristo crocifisso

    D’ora in avanti è un discendere sincopato e lento della passione che prelude alla deposizione, al sepolcro. È il finire della sofferenza umana di Cristo, non certo di quella della madre e dei discepoli, È il discendere e lo stare del corpo morto

    Se il ‘tutto è compiuto‘ ci interrogava sul futuro degli uomini, quest’ultima parola ci riporta ad una riflessione su Cristo uomo e Dio. Egli sperimenta il limite, il confine, l’instabilità, ciò che prima o poi qualunque vivente dovrà affrontare. Da un lato l’abbandono, dall’altro la fede

    Ecco perché il Cristo crocifisso di Velazquez. Si narra che il pittore, non soddisfatto di una parte del volto lo abbia coperto con la ciocca di capelli che scende dalla corona di spine. Questo è il particolare che forse più di ogni altro rende quest’opera perfetta. 

    Sul volto del Cristo di Velazquez troviamo a destra l’abbandono, a sinistra la fede: il mistero di una bellezza che percepiamo eppure non vediamo chiaramente

    In tutta quest’opera avvolta di tenebre eppure così pacata, si scopre infondo che abbandono e fede in Cristo coincidono. In questa coincidenza e consapevolezza il corpo inizia già a brillare della luce del Padre e delle sue opere. Gesù inizia a vivere del chiarore delle risurrezione.

    Diego Velazquez, Cristo crocifisso
    Diego Velazquez, Cristo crocifisso

    Felice Pasqua a tutti voi da Oltre l’arte

  • Le Violon d’Ingres di Man Ray-PODCARD
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    Le Violon d’Ingres di Man Ray-PODCARD

    Man Ray immortalò la sua Musa e Amante Kiki de Montparnasse in uno scatto che la ritrae seduta di schiena completamente nuda.

    Di lei non vediamo le gambe e le braccia, quello che emerge del suo corpo è solo la curvatura delle spalle, il profilo dei fianchi e quello dei glutei.

    Il volto è girato di tre quarti quasi a voler ammiccare all’osservatore.

    Indossa solamente un paio di orecchini e un turbante.

    Accessori che rievocano uno dei miti dell’erotismo occidentale nel XIX secolo, un soggetto caro alla storia dell’arte : l’odalisca

    Sul quel corpo Man Ray traccia due effe. E così improvvisamente Kiki, dalle forme tonde, morbide e desiderose, si trasforma in un violoncello, in  uno strumento da suonare, da toccare e da possedere.

  • L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp-PODCARD
    arte,  arte contemporanea,  podcards

    L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp-PODCARD

    Duchamp partì una cianografia, una cartolina tra le più dozzinali e scadenti in commercio, della più celebre opera di Leonardo da Vinci e vi disegnò sul volto baffi e pizzetto.

    In calce scrisse l’acronimo L.H.O.O.Q. (Elle a chaud au cul) il quale suono corrisponde alla fase irriverente di «ella ha caldo al culo».

    Un’operazione dissacrante che cela un messaggio più profondo della semplice provocazione. La scelta della Monna Lisa è una chiara critica al modello estetico promosso nel tardo ottocento, e alla contemporanea industria della divulgazione che aveva ormai svalutato la venerata icona leonardesca facendone una merce pronta al mero consumo.

    Come ricorda Thierry De Duve in ARTEFATTO

    vi devono essere quattro condizioni per FARE ARTE :

    un referente («questo»), un enunciatore (ossia l’«artista» meglio ciò che rimane di esso) un destinatario («il pubblico») e infine un’istituzione , ovvero un «contesto» entro cui questo incontro accade.  

    Thierry De Duve

    Il merito di Duchamp è quello di aver insegnato che il ruolo dell’artista è soltanto una delle quattro componenti.

  • La bagnate di Valpinçon di Ingres
    arte,  podcards

    La bagnante di Valpinçon di Ingres-PODCARD

    Ingres invio la tela da Roma a Parigi per partecipare all’esposizione del Salon del 1808. 

    Il dipinto fu acquistato dal collezionista Leonard Valpinçon, da cui prese il nome: La bagnante di Valpincon.  Divenne di proprietà del Louvre nel 1879.

    Ingres ritrae una donna dalle morbide e sinuose forme, seduta di schiena con un turbante che avvolge i capelli bruni e la testa dolcemente rivolta verso destra, lasciandoci immaginare il volto della donna consegnandoci le chiavi di un profilo appena accennato.

    La nudità, che appare mitigata dal porgersi di spalle, in realtà è qui enfatizzata.

    Il nostro sguardo accarezza la figura, scivolando dolcemente dalla spalla illuminata, lungo il braccio appena piegato, per poi scendere alle gambe timidamente incrociate. 

    Un’ideale di bellezza classica dipinto in maniera magistrale nella sua estrema semplicità.

    Ma una domanda sorge spontanea di che bodyshape parliamo…pera, mela o clessidra?

  • Il ballo al Moulin de la Galette
    arte,  impressionismo,  podcards

    Ballo al Moulin de la Galette-PODCARD

    Georges Rivière nel 1877 su «L’Impressioniste,Journal d’Art» descrive il dipinto dell’amico Renoir:

    «La domenica, la musica del ballo riempie la strada, e i bambini delle case vicine ballano gridando nelle corti. Intorno al ballo le strade sono piene di giovani, di famiglie intere con il loro seguito di bambini che corrono ai giochi e ai cavallini di legno sistemati lì vicino. Non ci sono che risate, grida, scherzi dalle tre fino a mezzanotte. Sempre numeroso, il pubblico del Moulin è composto esclusivamente da giovani, tra i quali vi è un certo numero di pittori che vengono a cercare dei modelli…Dalle tre di pomeriggio, le polche e le quadriglie si alternano senza interruzione.»

    Renoir realizza questa meravigliosa istantanea a colori nel 1876. La scena sembra svilupparsi oltre i margini della tela catapultando l’osservatore nell’atmosfera vivace e chiassosa della domenica al Moulin de la Galette. Percepiamo la spensieratezza, vediamo sorrisi e udiamo le musiche…a danzare insieme alla borghesia è la luce del sole parigino. 

  • Da dove veniamo?Chi siamo? Dove andiamo? di Paul Gauguin-PODCARD
    arte,  arte contemporanea,  podcards

    Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? di Paul Gauguin-PODCARD

    «Dove andiamo? – scrive all’amico de Monfreid- Una vecchia che muore. Uno strano stupido uccello che rappresenta la vanità della parola chiude il motivo. Cosa siamo? La vita di tutti i giorni. D’istinto l’uomo cerca di carpirne il senso. Da dove veniamo? L’origine. Il bambino. La vita. Dietro l’albero due figure sinistre (due donne che osano pensare al proprio destino) nei loro indumenti dai colori tristi lasciano accanto all’albero della scienza questa nota malinconia di dolore in contrasto con l’ingenua presenza di una natura vergine che si abbandona ai piaceri della vita in questo paradiso immaginario». 


    Paul Gauguin

    Quest’opera fu realizzata da Gauguin nel 1897 durante il suo soggiorno in Polinesia. Il pittore ormai lontano dall’Occidente e da esso artisticamente esiliato con il fallimento dell’ultima mostra, conferì alla tela un’intonazione sacrale, rituale e misteriosa. Un ciclo della vita, dalla morte alla nascita e ancora dalla nascita alla morte in una circolarità che pare incantata, ma che è pura vanità. Lo stesso autore dichiara futile ogni tentativo di spiegazione. «dove inizia l’esecuzione di un quadro e dove finisce?».

    I colori, l’esotismo, lo stile pittorico di Gauguin, ma oggi quanto mai, sarebbe necessario ogni giorno chiedersi: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? O forse sarebbe inutile.

  • arte,  arte contemporanea,  podcards

    L’impero delle luci di Renè Magritte-PODCARD

    Un paesaggio avvolto nel mistero, dove convivono il giorno e la notte. 

    Al centro un piccolo lampione che illumina con la sua luce fioca una casa, affianco un enorme albero che si staglia cupo su di un cielo azzurro.

    Un ossimoro in arte, che ci lascia stupiti e incantati al tempo stesso e che è metafora della vita. 

    Lo stesso Renè Magritte nel 1966 :

    «Dopo aver dipinto L’empire des lumières, ho avuto l’idea della notte e del giorno che esistono insieme, come fossero una sola cosa. E’ ragionevole: nel mondo il giorno e la notte esistono nello stesso tempo. Proprio come la tristezza esiste sempre in alcune persone e allo stesso tempo la felicità esiste in altre» 

    Magritte senza abbandonare le tecniche convenzionali della pittura mette in dubbio la percezione dell’osservazione. Questo è surrealismo!

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    Nudo di spalle di Umberto Boccioni-PODCARD

    Una donna anziana a mezzo busto seduta su una sedia.

    Di lei vediamo la schiena nuda, rivolta all’osservatore, mentre il capo è di profilo. Il braccio sinistro, ricade lungo il corpo, mentre quello destro, lo si intravede appoggiato allo schienale della sedia.

    La luce filamentosa irrompe nella stanza, accarezzando dolcemente la donna, esaltandone i lineamenti a tratti duri e spigolosi del volto e la morbidezza del corpo.

    Sottile linee di colore danno vita al dipinto, creando un’atmosfera vibrante ed enfatizzando la plasticità anatomica del corpo, del corpo di una donna, del corpo di una madre.

    Boccioni la dolcezza e il colore, la premura di un figlio che da dietro protegge e cura. 

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    Alchimia di Jackson Pollock-PODCARD

    “Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quel che faccio. Solo dopo una specie di “presa di coscienza” vedo ciò che ho fatto. Non ho paura di fare dei cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc. Perché un quadro ha una vita propria. Tanto da lasciarla emergere. Solo quando perdo il contatto col quadro il risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia totale, un rapporto naturale di dare e avere, e il quadro riesce”.

    Jackson Pollock

    Lo sguardo percorre tutta l’opera riempita dal colore che è colato sulla tela in modo del tutto casuale. Le linee si assottigliano e si ispessiscono, acquistano velocità e scorrono lentamente, a seconda della densità della pittura.

    La linea non serve più per descrivere figure o contenere forme, ma esiste in qualità di evento autonomo riportando sulla tela i movimenti del corpo dell’artista e le sue scelte istantanee. 

    Un caos si, ma che esprime armonia, l’assoluto nel gesto del dripping.