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Le due Frida di Frida Kahlo – PODCARD
Le due Frida, due donne a confronto, allo specchio, per far emergere l’ambivalenza dell’animo di una donna profondamente fedele ai suoi sentimenti e a se stessa.
Due Frida: quella di destra vestita in abiti colorati e popolari che richiama la tradizione messicana, è la donna amata da Diego Rivera; quella di sinistra in abito bianco che rappresenta l’emancipazione europea è la donna abbandonata da Diego.
Le due figure che sembrano così distanti in realtà sono vicine e unite dall’arteria che irrora i due cuori.
È un dialogo solenne tra la sofferenza dell’abbandono e la consapevolezza che ogni rottura è anche segno di cambiamento, di rinascita.
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Bar aux Folies-Bergère di Édouard Manet – PODCARD
Le parole di Zola trovano una puntuale traduzione nell’opera Bar aux Folies-Bergère di Manet:
«La bella Lisa era ferma in piedi dietro al suo bancone [….]Florent la contemplava , muto, sbalordito dalla sua bellezza […]Quel giorno ella emanava una freschezza straordinaria […] Florent la guardava furtivamente riflessa nello specchio […]lei vi si riverberava di spalle, di viso, di lato.»
Émile ZolaLa forza di quest’opera è nel suo essere traboccante di protagonisti.
Ciascun angolo della tela potrebbe infatti brillare di luce propria. Protagonisti sono il bancone marmoreo con le diverse bottiglie, protagonisti i fiori nel vaso e sul petto della donna, protagonista lei ritratta fronte-retro. Protagonista infine il mondo riflesso nello specchio.
In questo caso è il dipinto a guardare lo spettatore…e non viceversa!
Bar aux Folies-Bergère di Eduard Manet
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Elizabeth Siddal: la donna preraffaellita dai capelli color Tiziano
Elizabeth Siddal, la donna preraffaellita, è nota al grande pubblico come la bella Ophelia di John Everett Millais (1852). In realtà, la giovane donna, non fu solo la modella della Confraternita Preraffaellita, ma anche un’abile pittrice e poetessa.
Posare per i Preraffaelliti
Lizzie si avvicinò al modo dell’arte grazie al pittore Walter Howell Deverell, il quale la notò per i suoi lineamenti non convenzionali, la carnagione pallida, gli occhi grandi e la chioma rosso Tiziano; tutti elementi tipici di quella bellezza decadente di epoca vittoriana che tanto era apprezzata dagli artisti.
La ragazza attirò fin da subito l’attenzione dei giovani preraffaelliti: William Holman Hunt, John Everett Millais e di Dante Gabriel Rossetti.
Proprio di quest’ultimo fu la modella prediletta e amante, ritratta dall’artista come Beata Beatrix, identificando in lei l’angelica donna fonte d’ispirazione e in lui, il pittore, il sommo poeta del Dolce Stil Novo.
L’amore e il tormento per Rossetti
L’amore tra i due fu tutt’altro che romantico e puro. Rossetti desiderava “migliorarla”, renderla più meritevole di essere la sua compagna, specialmente agli occhi della sua famiglia; spingendola così a diventare un’artista e migliorare il suo status sociale. Fu proprio lui ad insegnarle i rudimenti della pittura e ad avviarla alle prime esposizioni.
Elisabeth Siddal, la donna preraffaellita, realizzò opere ispirate al ciclo Arturiano e alle tipiche ambientazioni medievali come la Dama di Shallot (1853), il Lamento della donna (1857) e la Ricerca del Santo Graal (1855-1857).
Il successo artistico
Lo stesso John Ruskin, autorevole critico d’arte e sostenitore della Confraternita Preraffaellita, riconobbe in Lizzie una valida artista, definendola “geniale”. Egli decise di investire nel talento della giovane offrendole un sostegno economico e diventando il suo mercante d’arte.
A conferma delle sue capacità artistiche fu chiamata a partecipare, come unica donna, all’esposizione del 1857 al Salone Preraffaellita con alcuni disegni e un autoritratto ad olio.
Clerk Saunders, 1856 La dama di Shalot, 1853
Autoritratto, 1857 Così, tragicamente, finì la vita di Elisabeth Siddal, la donna preraffaellita
Purtroppo il successo in ambito artistico non riuscì a salvare Lizzie dalla depressione che la portò ad un destino triste e oscuro. A causa della sua salute cagionevole iniziò a fare uso di laudano, fino a diventarne dipendente. Inoltre la condotta infedele dell’amato Rossetti e la perdita della loro primogenita (1961) aumentò in lei il senso di inadeguatezza e sofferenza, un dolore talmente insostenibile che la spinse, all’età di soli 32 anni (1862), a togliersi la vita avvelenandosi con un’intera dose di laudano. Così, tragicamente, finì la vita di Elisabeth Siddal, la donna preraffaellita.
Dante Gabriel Rossetti, Regina Cordium 1860 Tutto il suo tormento Elizabeth lo trascrisse in quattordici poesie che furono pubblicate solamente nel 1906 per volontà di William Michael Rossetti, fratello di Dante.
In questi componimenti Lizzie esprime tutta la sua infelicità descrivendo quel doloroso e sottile confine che c’è tra l’amore e la morte.
Dead Love
Oh never weep for love that’s dead
Since love is seldom true
But changes his fashion from blue to red,
From brightest red to blue,
And love was born to an early death
And is so seldom true.Then harbour no smile on your bonny face
To win the deepest sigh.
The fairest words on truest lips
Pass on and surely die,
And you will stand alone, my dear,
When wintry winds draw nigh.
Sweet, never weep for what cannot be,
For this God has not given.
If the merest dream of love were true
Then, sweet, we should be in heaven,
And this is only earth, my dear,
Where true love is not given.Amore finito
Non piangere mai per un amore finito
poiché l’amore raramente è vero
ma cambia il suo aspetto dal blu al rosso,
dal rosso più brillante al blu,
e l’amore destinato ad una morte precoce
ed è così raramente vero.Non mostrare il sorriso sul tuo grazioso viso
per vincere l’estremo sospiro.
Le più belle parole sulle più sincere labbra
scorrono e presto muoiono,
e tu resterai solo, mio caro,
quando i venti invernali si avvicineranno.Tesoro, non piangere per ciò che non può essere,
Elizabeth Siddal
per quello che Dio non ti ha dato.
Se il più puro sogno d’amore fosse vero
allora, amore, dovremmo essere in paradiso,
invece è solo la terra, mio caro,
dove il vero amore non ci è concesso.Dettaglio Ophelia di John Everett Millais 1852 -
Berthe Morisot la donna dell’impressionismo
«La profondità, bisogna nasconderla. Dove? Sulla superficie»
Hugo von HofmannsthalÉdouard Manet, Berthe Morisot con un mazzo di violette 1972 Berthe Morisot nacque a Bourges il 14 gennaio del 1841 in una famiglia alto borghese. Dopo vari spostamenti, a causa del lavoro del padre come prefetto, nel 1852 Berthe si trasferì a Parigi. Con il sostegno dei genitori, sia lei che la sorella Edma, iniziarono ad interessarsi alla pittura.
Le prime opere
Particolarmente portata per il disegno, Berthe entrò nell’atelier di Joseph Benoit Guichard, allievo di Ingres e Delacroix e amico di Corot. Fu proprio quest’ultimo ad indirizzare la giovane artista alla pittura en plein air .
Le opere di questo periodo sono costellate di persone a lei care e di paesaggi dal sapore poetico, come scrisse Jean Prouvaire in La Rappel:
«Mlle Berthe Morisot ci conduce nei prati bagnati dalla rugiada marina. Nei suoi acquerelli come nei suoi dipinti ad olio ama i grandi prati dove si siede, libro alla mano, qualche donna accanto ad un bambino. Berthe confronta l’artificio affascinante della Parigina con il fascino della natura.»
Madre e sorella dell’artista, 1869/1870 Vista di Parigi dal Trocadero, 1871- 1872 Sotto il lillà a Maurecourt, 1874 La caccia alle farfalle, 1874 L’incontro con Manet
Dal 1864 al 1873 Berthe iniziò ad esporre con regolarità le sue opere al Salon. Fu proprio tra le sale del Louvre che incontrò quello che divenne il suo mentore e amico, Edouard Manet.
Grazie alla vicinanza di quest’ultimo la giovane Morisot entrò in contatto con alcuni dei più celebri artisti dell’epoca, tra i quali Degas e Puvis de Chavannes.
La prima esposizione impressionista
Di lì a poco nella primavera del 1874 Berthe fu impegnata ad organizzare insieme a Monet, Degas, Pissarro, Sisley, Renoir, Guillarme e Cézanne la prima esposizione degli Indépendants presso lo studio del fotografo Nadar in boulevard des Capucines 35.
Catalogo della prima mostra degli Indépendants Proprio in questa occasione la pittrice presentò un’opera a lei molto cara: “La culla”. Questo dipinto appare come un omaggio all’amata sorella Edma, ritratta mentre guarda teneramente la figlia nata da pochi giorni.
La culla, 1872 Il matrimonio
In quello stesso anno Berthe si legò sempre di più al fratello di Édouard, Eugène Manet. I due decisero di sposarsi nella primavera del 1875.
Berthe, nonostante la vita matrimoniale, non distolse mai la sua attenzione dal suo grande amore: la pittura. Fu costantemente impegnata dalla sua ricerca e dal «desiderio di catturare qualcosa di fugace».
Nel 1879 mancò all’esposizione impressionista a causa della recente nascita della figlia Julie Manet.
Eugène Manet all’Isola di Wight, 1875 Il tema del ballo
L’attenzione della Morisot in questi anni si rivolse verso soggetti pittorici apparentemente più frivoli e leggeri, ma che in realtà celano un’indagine psicologia e sentimentale del mondo borghese.
All’esposizione impressionista del 1880 Berthe presentò Jeune femme en toilette de bal. Un dipinto dal sapore romantico e onirico: una ragazza vestita in abiti eleganti, con il capo leggermente rivolto verso sinistra, osserva attenta qualcosa che è precluso allo sguardo dell’osservatore.
Giovane donna in tenuta da ballo, 1879
Donna alla toilette, 1875Al ballo, 1875 Lo specchio Psiche, 1876 Ritratto di giovane donna, 1878
La prima personale e la morte
La presenza dell’artista alle mostre impressioniste fu constante fino al 1886, anno della sua ultima partecipazione. Seguì poi nel 1892, successivamente alla morte del marito, la sua prima esposizione personale presso la Galerie Boussod Valadon et Cie.
Il 2 marzo 1895 Berthe morì a causa di un problema polmonare.
Dopo soli tre giorni gli amici e colleghi : Degas, Monet, Renoir e Mallarmé organizzarono la prima mostra postuma dedicata alla pittrice celebrando una donna, un’amica e un’artista autorevole, che diede il suo importante contributo per l’affermazione di uno dei movimenti artistici più conosciuti e apprezzati della storia dell’arte: l’Impressionismo.
Autoritratto, 1885 -
La Pietà di Michelangelo
A soli 23 anni Michelangelo Buonarroti realizzò uno dei più importanti capolavori della storia: la Pietà.
La commissione dell’opera al giovane Michelangelo
Le opere nascono in un contesto e risulta solitamente complesso ricostruirlo a posteriori. Lo è anche per la Pietà. Il celebre gruppo scultoreo fu realizzato dal giovane Michelangelo giunto a Roma su commissione di Jean de Bilhères-Lagraulas, divenuto cardinale nel 1593 e nominato da papa Alessandro VI. Il soggetto dell’opera, che doveva decorare il sepolcro del committente, fu sin da subito messo in chiaro:
«Una Pietà di marmo, cioè una Vergine Maria vestita con un Cristo morto nudo in braccio».
Chi mai si sarebbe aspettato che da un blocco di marmo di carrara, appositamente scelto dal Buonarroti e fatto arrivare nella città pontificia, potesse prendere vita un simile capolavoro.
Descrizione dell’opera
A colpire fin da subito è il contrasto deciso eppure armonico tra la veste della Vergine, le pieghe del sudario e la carne morta del Cristo, gelida e liscia. Ci appare un corpo appena scalfito dai segni dei segni della croce in una perfezione apparente che lo avvolge e lo trasfigura. La gravità della morte lo chiama alla terra, lo porta al basso, all’abbandono. Maria si interpone, si mette in mezzo tra la roccia e il Cristo. Le gambe della Vergine lo accolgono nuovamente, il suo braccio destro lo sorregge con sforzo cercando di riportarlo a sé e opponendosi a quell’abbandono. È il braccio disperato della madre. Dalla parte opposta una mano si apre al cielo. Sembra il gesto titubante delle tante annunciazioni: una sorta di… fa tu!? sia fatta la tua volontà. E’ il braccio di Maria sposa di Cristo.
Una Maria ‘coetanea’ di Michelangelo
Quella Maria così giovane che fin dai primi anni destò stupore. Condivi, il biografo del Buonarroti, scrisse: “La castità, la santità e l’incorruzione preservano la giovinezza”. È la Maria vergine e madre, sposa di Cristo e simbolo della chiesa, una chiesa fondata sulla roccia. È la Maria del concepimento di Cristo, che Michelangelo raffigura come una sua coetanea.
27709 La firma e altri particolari
Michelangelo firmò, unica tra le altre, questa opera. Lo fece sulla cintola che separa i seni della Vergine: «MICHAEL ANGELUS BONARROTUS FLORENTINUS FACIEBAT».
Alcuni particolari ci restituiscono l’idea di estrema finitezza dell’opera, che la rendono uno tra i principali capolavori dell’arte. La politura del marmo rifinito in ogni suo angolo; la verosimiglianza del velo di pelle che ricopre l’anatomia del corpo, le vene, i muscoli; l’armonia della mano con le dita lasciatesi separare dalla piega della veste.
Il contesto perduto
Oggi l’opera si trova nella prima cappella della navata Nord della Basilica. Ma non esistendo negli ultimi anni del Quattrocento la basilica che oggi vediamo, dovremmo chiederci dove essa fosse collocata, in quale prospettiva era vista, chi poteva ammirarla. Il committente Jean de Bilhere Lagraulas era uno dei più importanti uomini della Roma dell’epoca e la sua sepoltura era prevista nel mausoleo di Petronilla, la Capella dei Re di Francia in vaticano. Un luogo scomparso con la costruzione della nuova basilica. Un altro contesto perduto, che all’opera avrebbe aggiunto significati ormai recuperabili solo parzialmente.
Il Mausoleo onoriano, o rotonda di Santa Petronilla è l’edificio a pianta circolare tangente il transetto dell’antica basilica di San Pietro. Una sintesi di qualsivoglia pietà!
Certamente questa pietà era una statua sepolcrale, un’arte che parla di morte e in essa di vita; di abbandono, ma anche di resurrezione; di dolore, ma soprattuto di fede. Nella Pietà di Michelangelo percepiamo come non mai questo duplice significato, questa energia opposta, questo ossimoro di sentimenti: su questo marmo troviamo il braccio della madre che porta a sé e allo stesso tempo quello della Maria che offre suo figlio morto abbandonandosi alla fede nella speranza.
La pietà di Michelangelo è una sintesi di qualsivoglia pietà.
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Frida Kahlo una donna simbolo della sua epoca
«La rivoluzione è l’armonia della forma e del colore e tutto esiste, e si muove sotto una sola legge: la vita»
Frida KahloFrida Kahlo è, forse, la più celebre pittrice del XX secolo.
Una donna forte, indipendente e appassionata segnata da una vita travagliata e piena di dolore. Un’esistenza raccontata attraverso immagini dalle forme semplici eppure emotivamente travolgenti.
Una donna che nonostante tutto ha sempre celebrato e gridato il motto VIVA LA VIDA!
Scopriamo un po’ di lei attraverso alcune sue opere, parole e video…
Autoritratto con il vestito di velluto (1926) L’incidente
«L’incidente avvenne su un angolo, di fronte al mercato di San Juan, esattamente di fronte. Il tram procedeva con lentezza, ma il nostro autista era un ragazzo giovane, molto nervoso. Il tram, nella curva, trascinò l’autobus contro il muro.»
Frida KahloL’autobus (1929) La colonna rotta (1944) Frida e Diego
«Ho subito due gravi incedenti nella mia vita…il primo è stato quando un tram mi ha travolta e il secondo è stato Diego Rivera.»
Frida KahloFrida e Diego (1931) Ciò che l’acqua mi ha dato (1938)
Ospedale Henry Ford (o il letto volante) 1932 Le due Frida
«Dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio.»
Frida KahloAutoritratto con collana di spine (1940) Autoritratto dedicato al dottor Eloesser (1940)
Pensando alla morte (1943) «Non rinnego la mia natura, non rinnego le mie scelte, comunque la si guardi sono stata fortunata nella vita.»
Frida KahloL’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico) io, Diego e il signor Xoloti (1949) Viva la vita (1954) «Tanto assurdo e fugace è il nostro passaggio per il mondo, che mi rasserena soltanto il sapere che sono stata autentica, che sono riuscita ad essere quanto di più somigliante a me stessa mi è stato concesso di essere.»
Frida Kahlo -
LA RAPIDITÁ come valore. Da Calvino, per Hopper ed Escher, a Dosso Dossi.
Quando la rapidità è valore? Rapidità in arte e letteratura…in che senso? Perchè sostenere le tesi della rapidità nell’oggi che già di per sé corre veloce?
A queste domande proveremo a rispondere in questo terzo appuntamento dedicato alle lezioni americane di Italo Calvino.
Benzina di Edward Hopper: un’opera veloce
Prima di un qualsiasi viaggio è necessario fare rifornimento ed è per questo motivo che ci fermiamo per alcuni secondi insieme ad Hopper, in una delle sue atmosfere irrealmente umane, a fare benzina.
Sembra strano iniziare il discorso sulla rapidità da un’opera del genere e ben potreste credere che lo si faccia unicamente per il suo titolo. Ebbene, benzina è rapidità in potenza, ma qui Hopper la rapidità la rende atto.
Sì perché ogni opera d’arte, come ogni narrazione, non è unicamente ciò che essa racconta o narra, bensì è anche forma, colore e suono. Un dipinto in altre parole è il risultato di studi compositivi, in alcuni casi portati avanti per mesi o per anni, frutto ultimo e complesso di schizzi e disegni preparatori.
É nella composizione di questo quadro che percepiamo la rapidità: nella prospettiva scorciata, nelle numerose diagonali, nel ripetersi in successione delle tre pompe luminose, e nell’indefinito scandirsi dei tronchi dei pini e delle loro chiome mosse dal vento. Sebbene dunque molti dei dipinti di Hopper siano apparentemente statici, fotogrammi delicati della società d’allora, essi celano rapidità, e in questo ossimoro intrinseco funzionano.
Madonna Oretta scese da cavallo!
Ma all’automobile, il caro vecchio Boccaccio preferiva ovviamente il cavallo. Nella novella di Madonna Oretta il celebre scrittore ricorda quanto un valore come quello della rapidità, nel saper narrare, sia di vitale importanza. Essendo la gentile donna in groppa ad un cavallo e in compagnia d’un uomo «al quale forse non istava meglio la spada allato che il novellar nella lingua», interropendosi e ripetendosi spesso nel racconto, ella decise di continuare il viaggio a piedi sostenendo «messere questo vostro cavallo ha troppo duro trotto!».
Il raccontare una storia è assimilato all’andamento di un cavallo, e se mal narrata, bè si preferisce andare a piedi…In questo caso non è certo la velocità nella dizione, bensì il susseguirsi degli eventi, lo scandirsi logico della narrazione e la leggerezza nel racconto.
Escher e le sue metamorfosi
Escher, ad esempio, ci dà una efficace lezione su ciò che la rapidità, se ben dosata, può suscitare. In questa sua opera l’artista compie uno dei suoi viaggi metamorfici, dando una cadenza quasi maniacale al racconto, un’evoluzione continua eppure in ogni suo aspetto descritta completamente. Egli suscita il desiderio di conoscere il seguito, la volontà di continuare un viaggio.
«Ecco che allora il racconto – sostiene Calvino – appare come un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo contraendolo o dilatandolo». Pensiamo semplicemente alle short stories, o al processo esattamente opposto e iterativo del racconto nel racconto. Pensiamo a quanto sia importante il ritmo nel raccontare una barzelletta.
La rapidità e il cavallo
La metafora del cavallo fu utilizzata anche da Leopardi il quale, riferendosi al discorrere di Galileo, lo diceva essere «cavallo che corre e non cavalli che portan peso».
Nella società dei record, nell’epoca di wikipedia, nell’oggi in cui la velocità frenetica sembra prerogativa per il successo e spesso anche per il semplice vivere, quella del cavallo sembra metafora da scartare e ben superata.
Eppure quella di cui si sta parlando e che sarebbe valore nelle nostre vite è la velocità mentale, la quale secondo Calvino, non può essere misurata e non permette gare. Una rapidità dunque che sfugga la crosta omogenea e uniforme di comunicazione dei media odierni e si valorizzi nella differenza.
Vulcano e Mercurio
Una rapidità che in letteratura e nel narrato sia fondata sulla ricerca del ‘mot juste’ perchè in ogni frase la parola sia insostituibile e perché in arte l’ispirazione si traduca in forma, in realtà. Che sia una rapidità fondata su Mercurio e su Vulcano. Sul Mercurio dai piedi alati, leggero e adattabile, disinvolto e agile e sul Vulcano focale e concentrato, che lavora di mano, che cesella. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie affinché le fatiche di Vulcano diventino portatrici di significato. Rapidità è ispirazione certezza di passo e scelta di meta!
Giove dipinge farfalle di Dosso Dossi
Questo lo ritroviamo in quest’ultima opera, di Dosso Dossi, dove vediamo il re dell’olimpo lasciare da parte gli strumenti del suo potere e cimentarsi nell’atto creativo, dando origine a delle farfalle. Al suo fianco Hermes, Mercurio. L’atto creativo, il tempo di una pennellata, la rapidità di un battito d’ali, la ricerca di una parola…
Le altre Lezioni americane
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Artemisia Gentileschi autoritratto o allegoria della pittura?
«Essa ci pare l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura ,e colore, e impasto, e simili essenzialità»
Roberto Longhi (1916)Artemisia nacque a Roma nel 1593, si formò sulle opere del padre Orazio Gentileschi, caravaggista della prima ora, manifestando sin da subito talento e dedizione per l’arte e facendosi largo tra i pittori a lui contemporanei. La pittrice nel 1630 si spostò a Napoli, mentre il padre si era già trasferito a Londra alla corte del duca di Buckingham George Villers, favorito di Carlo I Stuart. Successivamente Artemisia raggiunse il padre in Inghilterra. Non sappiamo molto di questa parentesi inglese: le fonti datano il suo soggiorno tra il 1638-1639, poi non si hanno più notizie fino al 1649, quando è nuovamente nella sua bottega a Napoli. Lì morì nel 1653 ca.
Dipinto della Royal Collection
Tra i dipinti più affascianti della pittrice ricordiamo l’Autoritratto come Allegoria della pittura. Il dipinto fa parte della collezione reale britannica e la sua paternità alla casata è attestata già dal 1649, nell’inventario di Carlo I Stuart. In basso al centro è ancora visibile la firma A.G.F.(Artemisia Gentileschi fecit).
La tela è ancora oggi avvolta nel mistero sia per il luogo in cui fu eseguita che per la sua datazione. La Royal Collection sostiene che il quadro sia stato realizzato a Londra tra il 1638 e il 1639; al contrario studiosi come Micheal Levery e Mary Garrard ritengono che il dipinto sia da collocarsi nel primo trentennio del Seicento quando Artemisia era ancora a Napoli. Inoltre i due studiosi identificano l’opera con quella citata da Artemisia nelle lettere inviate a Cassiano del Pozzo (1630):
« […]Per servire V.S. ho usato ogni diligenza in farle il mio ritratto, il quale l’invierò con il seguente procaccio […]»
Quale sia l’ipotesi giusta non possiamo dirlo perché entrambe risultano plausibili ma allo stesso tempo confutabili a causa di molte lacune nella biografia di Artemisia. Quello che è certo è che siamo davanti ad un’opera di raffinata manifattura, innovativa nella scelta della composizione e di rara bellezza.
l’iconografia
Una donna in vesti cangianti verdi e brune, con i capelli neri raccolti, con il viso preso di scorcio assorto nei suoi pensieri creativi e il braccio teso verso l’alto colta nel gesto del dipingere.
Autoritratto come Allegoria della pittura (1638-1639) Tale rappresentazione coincide perfettamente con la tradizione iconografica del tempo della rappresentazione personificata della Pittura, trascritta dall’intellettuale Cesare Ripa nel XVI secolo:
«Donna bella, con capelli neri et grossi, sparsi et ritorti in diverse maniere, con le ciglia inarcate che mostrino pensieri fantastichi, si cuopra la bocca con una fascia ligata dietro a gli orecchi, con una catena d’oro al collo, dalla quale penda una maschera et habbia scritto nella fronte imitatio. Terrà in una mano il pennello et nell’altra la tavola, con la veste di drappo cangiante, la quale le cuopra li piedi et a’ piedi di essa si potranno fare alcuni istromenti della pittura, per mostrare che la pittura è esercitio nobile, non si potendo fare senza molta applicatione dell’intelletto, dalla quale applicatione sono cagionate et misurate appressodi noi tutte le professioni di qual si voglia sorte, non facendo l’opre fatte a caso, quantunque perfettissime alla lode dell’Autore, altrimente che se non fussero sue »
La scelta compositiva è insolita per Artemisia: audace, indipendente dalla tradizione pittorica italiana, così vicina allo stile fiammingo di van Dyck e lontana dalle sue opere più “canoniche” caratterizzate da un taglio frontale e il volto rivolto verso l’osservatore.
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come suonatrice di liuto (1615-1617) Artemisia Gentileschi, Autoritratto come martire (1615)
Vi sono inoltre elementi che si avvicinano al linguaggio caravaggesco come ad esempio la composizione della mano che tiene il pennello.
Allegoria o autoritratto?
La posizione della figura e la scelta compositiva sono elementi che spingono a chiedersi se quest’opera sia davvero l’autoritratto della celebre artista. Quest’aspetto risulta ancor più anomalo se si considera che il dipinto fu probabilmente dato in dono al re Carlo I Stuart.
Così Anna Banti narra nella biografia di Artemisia:
«[…] il ritratto di giovinetta e quella scritta: Artemisia Gentileschi. Con che fatica la compitavano gli Inglesi in visita domenicale. E altrettanto fecero e facevano, in diverse occasioni, quelli del milleseicentoquaranta, quarantuno, e su su, ripetendo, rileggendo quel nome straniero, tutte le volte che la tela fu raccolta, riposta, esposta, disprezzata, lodata, ritrovata. In verità il soggetto piaceva: una giovane che dipinge, una donna del mezzogiorno, e con quei capelli neri sfatti, da avvicinarla senza complimenti. «La Pittura» dissero un certo giorno i custodi dei palazzi reali. «Autoritratto di Artemisia Gentileschi» dichiarò il solito discendente di lady Arabella, appassionato di archivi.»
Tenendo in considerazione la personalità eclettica di Artemisia e la sua notevole abilità nel dipingere, è plausibile credere che tale dipinto possa porsi come punto di rinnovamento della tradizione pittorica in cui una figura allegorica invece che essere mero simbolo, diviene reale, incarnandosi in un’artista colta nell’atto creativo.
Quest’opera, che sia o meno l’autoritratto della pittrice, rimane una traccia di immenso valore, testimonianza viva dell’arte di una donna che dimostrò di meritarsi, a pieno titolo, un posto tra i grandi artisti del Seicento.
Bibliografia
Roberto Longhi, Artemisia padre e figlia in l’Arte 1916 pp.245-314
Anna Banti, Artemisia (1947), Milano, Bompiani, 1989
Maria Cristina Terzaghi, Artemisia Gentileschi a Londra in Artemisia Gentileschi e il suo tempo (2016)
Dario Taraborrelli, L’Allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi a Hampton Court. Ritratto di una pittrice del XVII secolo. Tesi di laurea in storia dell’arte moderna, presso Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, facoltà di lettere e filosofia (2010).
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La Stanza di Eliodoro: gli affreschi di Raffaello per Giulio II
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Il riposo durante la fuga in Egitto di Michelangelo Merisi da Caravaggio
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Oltre l’arte
Ogni martedì un breve video, una pillola d’arte e di bellezza!
Il racconto di oggi inizia nell’incertezza. Nella stessa incertezza che è propria di alcuni della vita e delle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un po’ come se il chiaroscuro pervicace delle sue tele si riverberasse, aspro e iconico, sulla persona e sull’artista. Questa tela, Il riposo durante la fuga in Egitto, è una delle prime opere a noi note del giovane pittore lombardo giunto a Roma. Fu probabilmente commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini (come sostiene Mina Gregori) e, di lì a pochi anni, entrò in possesso dell’accentratrice donna Olimpia Maidalchini (ve la ricordate? ne abbiamo parlato nel video dedicato alla Fontana dei Quattro fiumi del Bernini). Oggi è infatti possibile ammirarla a Roma presso la Galleria Doria Pamphili.
Caravaggio giunse a Roma dopo aver percorso quelle che Roberto Longhi definì le ‘vie dei Campi’, conoscendo e facendo esperienza dell’arte dei fratelli Campi. Sopprattutto però, arricchendosi alla scuola dell’arte lombarda del Lotto, del Moretto, del Moroni e del Savoldo.
Solo ripercorrendo queste ‘vie’ possiamo contestualizzare quella che altrimenti potrebbe sembrare una figura artistica estranea alla scena della pittura a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Così si avrà a comprendere un Caravaggio figlio del suo tempo, e non del nostro.
Ma veniamo finalmente all’opera: una tela in formato orizzontale, seppure non troppo, la cui lettura la facciamo partire dal basso, dalla terra.
Vediamo dapprima un selciato sulla destra coperto di erbe e, spostandoci verso sinistra, osserviamo il disporsi, forse un po’ troppo compendiario, di sassi e foglie secche. È tra questi oggetti che poggiano i piedi dei prtagonisti, sapientemente alternati alle vesti. piedi e panneggi, panneggi e piedi e… fiaschetta! immancabile!
E dai panneggi si sale alle ginocchia stanche del San Giuseppe, attorcigliandoci anche noi come il panno bianco attorno alla sinuosa figura stante dell’angelo e abbandonandoci poi al manto soffice della Vergine, anch’esso perso nella natura verdeggiante e rigogliosa.
Saliamo ancora e in quest’ambiente bucolico, che ben poco ha del paesaggio egiziano e pare piuttosto uno scorcio di campagna romana: la Vergine si è assopita. Sfinita dal viaggio e nella continua cura del figlio, il figlio abbraccia e avvolge. Rimane un profilo di bambino di dolcezza indicibile e un volto in scorcio magistrale, che riporta alla mente la figura della Maddalena penitente. Quest’ultima è un’opera realizzata nello stesso anno (1597) e plausibilmente per lo stesso committente. Inoltre, dietro le vesti e il personaggio di Maria di Maddalena, si cela in entrambi i casi la giovane modella Anna Bianchini.
Procedendo ancora verso sinistra la scena è interrotta da una nota di naturalismo puntuale: le ali rondine dell’angelo. Ali che Caravaggio riprese dal vero, dai modelli usati nelle rappresentazioni dell’epoca e, forse, dalla sua stessa memoria e dalle immagini degli angeli del Lotto nella pala di San Bernardino in Pignolo.
Riposo durante la Fuga in Egitto Pala di San Bernardino in Pignolo,
Lorenzo Lotto
L’angelo sembra suonare una pausa, con il volto e l’archetto leggermente sollevati dal violino. Lo sguardo è fisso sullo spartito, leggibile e riconoscibile. Si tratta di un brano del musicista fiammingo Noel Bauldewijn composto nel 1519 e ispirato al Cantico dei Cantici. Maria è qui madre e sposa.
Riposo durante la fuga in Egitto, particolare Ed eccoci a San Giuseppe ‘leggio umano’: gli angeli di Caravaggio sembrano non avere memoria e necessitano sovente di leggii e spartiti. Guardando con attenzione ci accorgiamo che lo stesso modello fu prima San Matteo e Abramo e che siede ora su un sacco più volte usato dal Caravaggio per allestire le scene. Questi sono particolari che rendono Caravaggio vivo e tangibile. Che ci mostrano il dietro le quinte e un pittore che sceglie i suoi modelli, che li fa posare utilizzando oggetti di scena e, che in questo caso, ‘fa bosco’ nel suo studio.
Il San Giuseppe è in questo dipinto estasiato dalla grazia del giovane angelo. C’è grazia di certo nella figura, ma grazia è in quello che egli suona e nelle promesse che questo brano porta con sé:
Quanto sei bella e quanto sei graziosa, Carissima mia, in mezzo alle delizie. La tua statura somiglia a una palma e a grappoli somigliano i tuoi seni. Il tuo capo è simile al monte Carmelo […] Una torre d’avorio è il collo tuo.[…] Vediamo se la vigna è tutta in fiore, se i fiori partoriscono la frutta, se sono tutti in fiore i melograni. I seni miei in quel luogo ti darò.
Quanto è umano questo Giuseppe che, non potendo gesticolare con le mani, lo fa coi piedi, regalandoci un brano di pittura eterno.
Giungendo nell’angolo in alto a sinistra ci accorgiamo che è il momento dell’asino (immancabile nell’iconografia della Fuga in Egitto). Costretto anche lui nel quadro fa da fondale ‘peloso’ al San Giuseppe, mentre spostandoci verso destra, diviene anch’esso protagonista col suo occhione diretto dritto verso lo spettatore. Di qui i capelli scompigliati del giovane, al quale Caravaggio ci ha abituato, e la natura, di querce e graminacee, fino a giù sulla destra dove si apre un paesaggio collinare. Il pittore dà all’intera composizione una collocazione reale e plausibile, un particolare nient’affatto scontato nella raffigurazione di una scena biblica.
Caravaggio e il suo committente scelsero di rappresentare il più tragico episodio dell’infanzia di Gesù mettendo in risalto la quotidianità e la familiarità delle relazioni. E, in questa quotidianità, dare spazio e valore a quell’unguento profumato che la musica, l’arte, la poesia possono essere nella vita di ciascuno.
E, se l’angelo stesse veramente suonando un pausa, potremmo trarre da qui un vivido appiglio. Dovremmo cambiare prospettiva e vivere le pause delle nostre vite, questa grande pausa che il Covid sembra essere e che tutti accomuna, come pause ‘da suonare’ in attesa e con il fine della musica. Pause da suonare anelando al momento in cui l’archetto accarezzerà di nuovo le corde di quel violino. La mano, come sempre ci insegna Caravaggio, è la nostra!