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L’Ecce Homo di Madrid: un Caravaggio?
Si sa, appena si fa il nome di Caravaggio, è subito stupore e notizia. Ed è proprio grazie alla presunta paternità del Merisi, che l’Ecce Homo di Madrid è diventato in poche ore il dipinto del momento.
Come è noto, il quadro doveva essere battuto in asta a Madrid l’8 aprile scorso. Nel catalogo della casa d’Asta Ansorena era indicato al lotto 229: L’incoronazione di spine, olio su tela, 111×86 cm, attribuito alla cerchia di Jusepe de Ribera, con una base d’asta molto bassa: 1.500 euro. Forse un po’ troppo bassa.
L’Ecce Homo di Madrid: descrizione dell’opera
Al di là di una balaustra, con un taglio a mezzo busto, vediamo tre figure. Al centro Cristo coronato di spine, il capo leggermente chino e rivolto verso destra. Alle sue spalle lo sgherro che, con un’espressione attonita, fissa lo spettatore mentre compie l’azione di ammantare la figura di Gesù con un telo rosso. Infine, sul lato opposto in primo piano, vediamo la figura di Pilato con una fisionomia segnata e uno sguardo intenso. Anche quest’ultimo personaggio si volge all’osservatore.
Una composizione studiata per suscitare un intenso pathos, un’emozione umana vicina agli occhi di chi la guarda. Le tre figure sono pensate come una sola, tutto ruota intorno a Cristo: il protagonista dell’opera.
La gestualità delle mani, assume in questa tela un valore centrale. Quelle di Pilato, in particolare, ci mostrano la figura del Cristo, l’una indicandolo e l’altra toccandolo.
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Le fonti ci dicono…
Proviamo ora a ricostruire, attraverso le fonti storiche, quella che potrebbe essere la storia di questo dipinto.
Nella biografia del Cigoli, scritta dal nipote Giovan Battista Cardi (1628) si fa riferimento ad un concorso voluto dalla Famiglia Massimi per la realizzazione di un Ecce Homo.
Tale concorso interessò Caravaggio, il Cigoli e il Passignano.
Inoltre sappiamo dalle note in alcune carte d’archivio della Famiglia Massimi a Roma che:
«Io Michel Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obligo a pingere all Ill.mo Massimo Massimi per essere stato pagato un quadro di valore e grandezza come è quello ch’io gli feci già della Incoronazione di Crixto per il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa, questo dì 25 Giunio 1605.»
(nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)«A dì marzo 1607 io Lodovico di Giambattista Cigoli o ricevuto da Nobili Signor Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagno di uno altra mano del sig.r Michelagniolo Caravaggio resto contanti scudi sopradetto Giovanni Massarelli suo servitore et in fede mia o scritto q.o di suddetto in Roma. Io Lodovico Cigoli.»
(nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)Come racconta Giovan Battista Cardi il quadro vincitore fu proprio quello dello zio, il Cigoli, oggi conservato a Palazzo Pitti mentre gli altri due dipinti furono venduti.
Inoltre il biografo Giovan Pietro Bellori nelle sue Vita de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672 scrisse così:
«Michel Angiolo Merisi da Caravaggio…… Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna»
Alla luce di queste testimonianze è possibile affermare che Caravaggio eseguì un Ecce Homo nel 1605, ma non sappiamo con certezza se si tratti proprio dell’Ecce Homo di Madrid.
Attribuzione di Roberto Longhi
Nel 1954 Roberto Longhi identificò come l’Ecce Homo Massimi il dipinto oggi conservato al Museo di Palazzo Bianco di Genova. Molti gli studiosi non concordi con tale attribuzione. Nonostante sia un dipinto che sicuramente guardi al Merisi, esso manifesta delle tonalità e dei tratti aspri, lontani dalla sensibilità pittorica del maestro.
L’Ecce Homo di Madrid è di Caravaggio
Invece per l’Ecce Homo di Madrid molti sono stati gli elementi che hanno convinto il mondo dell’arte. Così si è intonati tutti insieme e a gran voce il nome di Caravaggio, seppur con entusiasmi diversi.
Tra i più convinti, solo per citarne alcuni, vi sono: Massimo Pulini, Vittorio Sgarbi, Dario Pappalardo, Maria Cristina Terzaghi, Stefano Causa, e Rossella Vodret.
I dettagli chiave
Secondo gli studiosi i dettagli rivelatori dello stile di Caravaggio sono da rintracciarsi nelle pennellate dense del manto purpureo (che sembrano richiamare la Salomè del Prado), nella costruzione di luci e ombre per esaltare la figura centrale del Cristo, nelle mani protagoniste (che con quel impercettibile tocco di luce sull’unghia del pollice di Pilato attraggono lo sguardo dello spettatore). E ancora: nelle labbra e negli occhi di Cristo (affine al David di Villa Borghese) e in quel dettaglio morelliano dell’orecchio della figura in primo piano, con la chiarezza di delineazione e posizionamento tipica di Caravaggio, come sottolinea in un articolo Keith Christiansen.
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La tecnica pittorica
Dall’analisi di alcune macrofotografie si sono individuati degli abbozzi di ‘biacca a zig-zag’, un elemento nient’affatto marginale secondo la dottoressa Rossella Vodret. Infatti questo pigmento e le modalità del suo utilizzo si riscontra in alcune opere di Caravaggio a partire dal 1605, come il San Girolamo Borghese, il San Girolamo di Montserrat, la Flagellazione di Capodimonte. Tali abbozzi di biacca venivano impiegati dal Merisi per fissare, sulla preparazione scura, le zone da mettere in luce.
Ipotesi di provenienza dell’Ecce homo di Madrid
Vodret, insieme ad altri studiosi, non è concorde nel riconoscere la tela di Madrid come l’Ecce Homo Massimo (1605). Secondo la studiosa una possibile provenienza potrebbe risalire dalla raccolta di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, che fu viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659. Da alcuni inventari è noto che il viceré possedeva due tele originali di Caravaggio: una Salomè (di Madrid) e un Ecce Homo con soldato e Pilato che misurava 5 palmi. I dipinti sarebbero poi arrivati in Spagna in seguito alla fine dell’incarico come viceré.
Recentemente sul il quotidiano El País sono stati resi noti gli attuali proprietari dell’opera: i Pérez de Castro Méndez.
Una famiglia madrilena già nota al mondo dell’arte, in quanto responsabile della direzione della scuola di disegno e moda Iade di Madrid.
La loro discendenza risale a Evaristo Peréz de Castro, personaggio politico e redattore della Costituzione di Cadice del 1812. Il casato sarebbe entrato in possesso della tela nel 1823, ricevendolo in cambio di un’ opera di Alonso Canodalla dalla Real Academia di San Fernando, dove il Cristo dipinto era registrato come un “Ecce-Hommo con dos saiones de Carabaggio”.
Un dipinto di impianto caravaggesco
Tra i pareri più ponderati e prudenti troviamo quello di Tomaso Montanari il quale afferma in un suo articolo sul Fatto Quotidiano del 9 aprile:
«Il coro degli specialisti che hanno visto l’opera pare unanimemente entusiasta. Una cosa risulta chiara anche dalle fotografie disponibili: la sua struttura è tipicamente caravaggesca. È certamente isterico tutto il carrozzone allestito nella sala parto mediatica che da Madrid si estende a tutte le redazioni del mondo: dalla rivendicazione della scoperta (in un imbarazzante sovrapporsi di: ‘l’ho detto prima io!’), al gioco dei rimbalzi tra siti, giornali, televisioni (…). Oggi, però, è concreta la possibilità che, alla fine, un Caravaggio nasca davvero. A suggerirlo sono la qualità, la forza, la presenza dell’opera stessa».
Montanari afferma inoltre :
«L’invenzione del quadro (cioè la sua struttura, la composizione, la disposizione delle figure e la costruzione dei loro gesti) è tipicamente caravaggesca (…). La capacità di bloccare un attimo, raggiungendo il massimo del pathos attraverso la combinazione più drammatica possibile di poche mezze figure è la quintessenza dell’ultimo Caravaggio»
Non tutti concordano con l’ipotesi Caravaggio
E infine rimangono delle voci fuori dal coro. Una tra tutte quella di Nicola Spinosa, tra i massimi esperti delle pittura napoletana del Seicento. Quest’ultimo dissente dall’attribuzione al Merisi propendendo più per un caravaggista della prima ora, forse non proprio Ribera.
Dunque a chi dare ragione?
Solo il tempo ce lo dirà. Solamente uno studio accurato e approfondito, supportato dagli strumenti scientifici dalle indagini diagnostiche potranno sostenere l’ipotesi Caravaggio o smentirla.
In ogni caso, che si tratti di un Caravaggio o no, l’Ecce Homo di Madrid è sicuramente un’opera di raffinata qualità pittorica ed emotiva. L’opera di un grande artista, quale esso sia.
articoli di riferimento:
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Artemisia Gentileschi autoritratto o allegoria della pittura?
«Essa ci pare l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura ,e colore, e impasto, e simili essenzialità»
Roberto Longhi (1916)Artemisia nacque a Roma nel 1593, si formò sulle opere del padre Orazio Gentileschi, caravaggista della prima ora, manifestando sin da subito talento e dedizione per l’arte e facendosi largo tra i pittori a lui contemporanei. La pittrice nel 1630 si spostò a Napoli, mentre il padre si era già trasferito a Londra alla corte del duca di Buckingham George Villers, favorito di Carlo I Stuart. Successivamente Artemisia raggiunse il padre in Inghilterra. Non sappiamo molto di questa parentesi inglese: le fonti datano il suo soggiorno tra il 1638-1639, poi non si hanno più notizie fino al 1649, quando è nuovamente nella sua bottega a Napoli. Lì morì nel 1653 ca.
Dipinto della Royal Collection
Tra i dipinti più affascianti della pittrice ricordiamo l’Autoritratto come Allegoria della pittura. Il dipinto fa parte della collezione reale britannica e la sua paternità alla casata è attestata già dal 1649, nell’inventario di Carlo I Stuart. In basso al centro è ancora visibile la firma A.G.F.(Artemisia Gentileschi fecit).
La tela è ancora oggi avvolta nel mistero sia per il luogo in cui fu eseguita che per la sua datazione. La Royal Collection sostiene che il quadro sia stato realizzato a Londra tra il 1638 e il 1639; al contrario studiosi come Micheal Levery e Mary Garrard ritengono che il dipinto sia da collocarsi nel primo trentennio del Seicento quando Artemisia era ancora a Napoli. Inoltre i due studiosi identificano l’opera con quella citata da Artemisia nelle lettere inviate a Cassiano del Pozzo (1630):
« […]Per servire V.S. ho usato ogni diligenza in farle il mio ritratto, il quale l’invierò con il seguente procaccio […]»
Quale sia l’ipotesi giusta non possiamo dirlo perché entrambe risultano plausibili ma allo stesso tempo confutabili a causa di molte lacune nella biografia di Artemisia. Quello che è certo è che siamo davanti ad un’opera di raffinata manifattura, innovativa nella scelta della composizione e di rara bellezza.
l’iconografia
Una donna in vesti cangianti verdi e brune, con i capelli neri raccolti, con il viso preso di scorcio assorto nei suoi pensieri creativi e il braccio teso verso l’alto colta nel gesto del dipingere.
Autoritratto come Allegoria della pittura (1638-1639) Tale rappresentazione coincide perfettamente con la tradizione iconografica del tempo della rappresentazione personificata della Pittura, trascritta dall’intellettuale Cesare Ripa nel XVI secolo:
«Donna bella, con capelli neri et grossi, sparsi et ritorti in diverse maniere, con le ciglia inarcate che mostrino pensieri fantastichi, si cuopra la bocca con una fascia ligata dietro a gli orecchi, con una catena d’oro al collo, dalla quale penda una maschera et habbia scritto nella fronte imitatio. Terrà in una mano il pennello et nell’altra la tavola, con la veste di drappo cangiante, la quale le cuopra li piedi et a’ piedi di essa si potranno fare alcuni istromenti della pittura, per mostrare che la pittura è esercitio nobile, non si potendo fare senza molta applicatione dell’intelletto, dalla quale applicatione sono cagionate et misurate appressodi noi tutte le professioni di qual si voglia sorte, non facendo l’opre fatte a caso, quantunque perfettissime alla lode dell’Autore, altrimente che se non fussero sue »
La scelta compositiva è insolita per Artemisia: audace, indipendente dalla tradizione pittorica italiana, così vicina allo stile fiammingo di van Dyck e lontana dalle sue opere più “canoniche” caratterizzate da un taglio frontale e il volto rivolto verso l’osservatore.
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come suonatrice di liuto (1615-1617) Artemisia Gentileschi, Autoritratto come martire (1615)
Vi sono inoltre elementi che si avvicinano al linguaggio caravaggesco come ad esempio la composizione della mano che tiene il pennello.
Allegoria o autoritratto?
La posizione della figura e la scelta compositiva sono elementi che spingono a chiedersi se quest’opera sia davvero l’autoritratto della celebre artista. Quest’aspetto risulta ancor più anomalo se si considera che il dipinto fu probabilmente dato in dono al re Carlo I Stuart.
Così Anna Banti narra nella biografia di Artemisia:
«[…] il ritratto di giovinetta e quella scritta: Artemisia Gentileschi. Con che fatica la compitavano gli Inglesi in visita domenicale. E altrettanto fecero e facevano, in diverse occasioni, quelli del milleseicentoquaranta, quarantuno, e su su, ripetendo, rileggendo quel nome straniero, tutte le volte che la tela fu raccolta, riposta, esposta, disprezzata, lodata, ritrovata. In verità il soggetto piaceva: una giovane che dipinge, una donna del mezzogiorno, e con quei capelli neri sfatti, da avvicinarla senza complimenti. «La Pittura» dissero un certo giorno i custodi dei palazzi reali. «Autoritratto di Artemisia Gentileschi» dichiarò il solito discendente di lady Arabella, appassionato di archivi.»
Tenendo in considerazione la personalità eclettica di Artemisia e la sua notevole abilità nel dipingere, è plausibile credere che tale dipinto possa porsi come punto di rinnovamento della tradizione pittorica in cui una figura allegorica invece che essere mero simbolo, diviene reale, incarnandosi in un’artista colta nell’atto creativo.
Quest’opera, che sia o meno l’autoritratto della pittrice, rimane una traccia di immenso valore, testimonianza viva dell’arte di una donna che dimostrò di meritarsi, a pieno titolo, un posto tra i grandi artisti del Seicento.
Bibliografia
Roberto Longhi, Artemisia padre e figlia in l’Arte 1916 pp.245-314
Anna Banti, Artemisia (1947), Milano, Bompiani, 1989
Maria Cristina Terzaghi, Artemisia Gentileschi a Londra in Artemisia Gentileschi e il suo tempo (2016)
Dario Taraborrelli, L’Allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi a Hampton Court. Ritratto di una pittrice del XVII secolo. Tesi di laurea in storia dell’arte moderna, presso Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, facoltà di lettere e filosofia (2010).