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L’Ecce Homo di Madrid: un Caravaggio?
Si sa, appena si fa il nome di Caravaggio, è subito stupore e notizia. Ed è proprio grazie alla presunta paternità del Merisi, che l’Ecce Homo di Madrid è diventato in poche ore il dipinto del momento.
Come è noto, il quadro doveva essere battuto in asta a Madrid l’8 aprile scorso. Nel catalogo della casa d’Asta Ansorena era indicato al lotto 229: L’incoronazione di spine, olio su tela, 111×86 cm, attribuito alla cerchia di Jusepe de Ribera, con una base d’asta molto bassa: 1.500 euro. Forse un po’ troppo bassa.
L’Ecce Homo di Madrid: descrizione dell’opera
Al di là di una balaustra, con un taglio a mezzo busto, vediamo tre figure. Al centro Cristo coronato di spine, il capo leggermente chino e rivolto verso destra. Alle sue spalle lo sgherro che, con un’espressione attonita, fissa lo spettatore mentre compie l’azione di ammantare la figura di Gesù con un telo rosso. Infine, sul lato opposto in primo piano, vediamo la figura di Pilato con una fisionomia segnata e uno sguardo intenso. Anche quest’ultimo personaggio si volge all’osservatore.
Una composizione studiata per suscitare un intenso pathos, un’emozione umana vicina agli occhi di chi la guarda. Le tre figure sono pensate come una sola, tutto ruota intorno a Cristo: il protagonista dell’opera.
La gestualità delle mani, assume in questa tela un valore centrale. Quelle di Pilato, in particolare, ci mostrano la figura del Cristo, l’una indicandolo e l’altra toccandolo.
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Le fonti ci dicono…
Proviamo ora a ricostruire, attraverso le fonti storiche, quella che potrebbe essere la storia di questo dipinto.
Nella biografia del Cigoli, scritta dal nipote Giovan Battista Cardi (1628) si fa riferimento ad un concorso voluto dalla Famiglia Massimi per la realizzazione di un Ecce Homo.
Tale concorso interessò Caravaggio, il Cigoli e il Passignano.
Inoltre sappiamo dalle note in alcune carte d’archivio della Famiglia Massimi a Roma che:
«Io Michel Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obligo a pingere all Ill.mo Massimo Massimi per essere stato pagato un quadro di valore e grandezza come è quello ch’io gli feci già della Incoronazione di Crixto per il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa, questo dì 25 Giunio 1605.»
(nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)«A dì marzo 1607 io Lodovico di Giambattista Cigoli o ricevuto da Nobili Signor Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagno di uno altra mano del sig.r Michelagniolo Caravaggio resto contanti scudi sopradetto Giovanni Massarelli suo servitore et in fede mia o scritto q.o di suddetto in Roma. Io Lodovico Cigoli.»
(nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)Come racconta Giovan Battista Cardi il quadro vincitore fu proprio quello dello zio, il Cigoli, oggi conservato a Palazzo Pitti mentre gli altri due dipinti furono venduti.
Inoltre il biografo Giovan Pietro Bellori nelle sue Vita de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672 scrisse così:
«Michel Angiolo Merisi da Caravaggio…… Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna»
Alla luce di queste testimonianze è possibile affermare che Caravaggio eseguì un Ecce Homo nel 1605, ma non sappiamo con certezza se si tratti proprio dell’Ecce Homo di Madrid.
Attribuzione di Roberto Longhi
Nel 1954 Roberto Longhi identificò come l’Ecce Homo Massimi il dipinto oggi conservato al Museo di Palazzo Bianco di Genova. Molti gli studiosi non concordi con tale attribuzione. Nonostante sia un dipinto che sicuramente guardi al Merisi, esso manifesta delle tonalità e dei tratti aspri, lontani dalla sensibilità pittorica del maestro.
L’Ecce Homo di Madrid è di Caravaggio
Invece per l’Ecce Homo di Madrid molti sono stati gli elementi che hanno convinto il mondo dell’arte. Così si è intonati tutti insieme e a gran voce il nome di Caravaggio, seppur con entusiasmi diversi.
Tra i più convinti, solo per citarne alcuni, vi sono: Massimo Pulini, Vittorio Sgarbi, Dario Pappalardo, Maria Cristina Terzaghi, Stefano Causa, e Rossella Vodret.
I dettagli chiave
Secondo gli studiosi i dettagli rivelatori dello stile di Caravaggio sono da rintracciarsi nelle pennellate dense del manto purpureo (che sembrano richiamare la Salomè del Prado), nella costruzione di luci e ombre per esaltare la figura centrale del Cristo, nelle mani protagoniste (che con quel impercettibile tocco di luce sull’unghia del pollice di Pilato attraggono lo sguardo dello spettatore). E ancora: nelle labbra e negli occhi di Cristo (affine al David di Villa Borghese) e in quel dettaglio morelliano dell’orecchio della figura in primo piano, con la chiarezza di delineazione e posizionamento tipica di Caravaggio, come sottolinea in un articolo Keith Christiansen.
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La tecnica pittorica
Dall’analisi di alcune macrofotografie si sono individuati degli abbozzi di ‘biacca a zig-zag’, un elemento nient’affatto marginale secondo la dottoressa Rossella Vodret. Infatti questo pigmento e le modalità del suo utilizzo si riscontra in alcune opere di Caravaggio a partire dal 1605, come il San Girolamo Borghese, il San Girolamo di Montserrat, la Flagellazione di Capodimonte. Tali abbozzi di biacca venivano impiegati dal Merisi per fissare, sulla preparazione scura, le zone da mettere in luce.
Ipotesi di provenienza dell’Ecce homo di Madrid
Vodret, insieme ad altri studiosi, non è concorde nel riconoscere la tela di Madrid come l’Ecce Homo Massimo (1605). Secondo la studiosa una possibile provenienza potrebbe risalire dalla raccolta di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, che fu viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659. Da alcuni inventari è noto che il viceré possedeva due tele originali di Caravaggio: una Salomè (di Madrid) e un Ecce Homo con soldato e Pilato che misurava 5 palmi. I dipinti sarebbero poi arrivati in Spagna in seguito alla fine dell’incarico come viceré.
Recentemente sul il quotidiano El País sono stati resi noti gli attuali proprietari dell’opera: i Pérez de Castro Méndez.
Una famiglia madrilena già nota al mondo dell’arte, in quanto responsabile della direzione della scuola di disegno e moda Iade di Madrid.
La loro discendenza risale a Evaristo Peréz de Castro, personaggio politico e redattore della Costituzione di Cadice del 1812. Il casato sarebbe entrato in possesso della tela nel 1823, ricevendolo in cambio di un’ opera di Alonso Canodalla dalla Real Academia di San Fernando, dove il Cristo dipinto era registrato come un “Ecce-Hommo con dos saiones de Carabaggio”.
Un dipinto di impianto caravaggesco
Tra i pareri più ponderati e prudenti troviamo quello di Tomaso Montanari il quale afferma in un suo articolo sul Fatto Quotidiano del 9 aprile:
«Il coro degli specialisti che hanno visto l’opera pare unanimemente entusiasta. Una cosa risulta chiara anche dalle fotografie disponibili: la sua struttura è tipicamente caravaggesca. È certamente isterico tutto il carrozzone allestito nella sala parto mediatica che da Madrid si estende a tutte le redazioni del mondo: dalla rivendicazione della scoperta (in un imbarazzante sovrapporsi di: ‘l’ho detto prima io!’), al gioco dei rimbalzi tra siti, giornali, televisioni (…). Oggi, però, è concreta la possibilità che, alla fine, un Caravaggio nasca davvero. A suggerirlo sono la qualità, la forza, la presenza dell’opera stessa».
Montanari afferma inoltre :
«L’invenzione del quadro (cioè la sua struttura, la composizione, la disposizione delle figure e la costruzione dei loro gesti) è tipicamente caravaggesca (…). La capacità di bloccare un attimo, raggiungendo il massimo del pathos attraverso la combinazione più drammatica possibile di poche mezze figure è la quintessenza dell’ultimo Caravaggio»
Non tutti concordano con l’ipotesi Caravaggio
E infine rimangono delle voci fuori dal coro. Una tra tutte quella di Nicola Spinosa, tra i massimi esperti delle pittura napoletana del Seicento. Quest’ultimo dissente dall’attribuzione al Merisi propendendo più per un caravaggista della prima ora, forse non proprio Ribera.
Dunque a chi dare ragione?
Solo il tempo ce lo dirà. Solamente uno studio accurato e approfondito, supportato dagli strumenti scientifici dalle indagini diagnostiche potranno sostenere l’ipotesi Caravaggio o smentirla.
In ogni caso, che si tratti di un Caravaggio o no, l’Ecce Homo di Madrid è sicuramente un’opera di raffinata qualità pittorica ed emotiva. L’opera di un grande artista, quale esso sia.
articoli di riferimento:
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La cappella Contarelli e il ‘Caravaggio’ mai rifiutato!
Le due parole che definiscono a pieno questo luogo sono: «che meraviglia!». Ecco, meraviglia. Non solo perché qui si ammira e si respira Caravaggio. Meraviglia perché in questo angolo di Roma c’è l’opportunità vera di catapultarsi nell’atmosfera della città eterna a cavallo tra Cinque e Seicento. Meraviglia, infine, perché quello che noi vediamo oggi è stato ponderato, scelto, modificato, sbagliato secondo un pensiero e per un contesto che arriva a noi quasi interamente intatto. Entriamo allora al dentro di queste storie per scoprire gli attori, i luoghi, le opere, le idee e i cambi di direzione: La cappella Contarelli…
Poi però, non venitemi a dire che il primo San Matteo fu rifiutato!
La storia della cappella e il cardinale Mathieu Cointrel
Roma, San Luigi dei Francesi, a pochi metri da piazza Navona, a fianco di palazzo Madama e di fronte a Palazzo Giustiniani. In questa chiesa Mathieu Cointrel nel 1565 acquistò una cappella della quale, una volta morto nel 1585, si occuparono i Crescenzi quali esecutori testamentari. Mathieu, Matteo, San Matteo. Facile no? Ecco scelto il soggetto delle storie.
Ma quando arriva Caravaggio? Ci siamo quasi, ma prima di lui il Crescenzi chiamò due altri artisti: il Cavalier d’Arpino, per la decorazione ad affresco delle pareti laterali e del soffitto e successivamente il Cobaert per la realizzazione di un gruppo scultoreo da porre sopra l’altare.
Nel 1593 il D’Arpino aveva portato a termine il soffitto, dei laterali e della statua del Cobaert però ancora nel 1597 non v’erano tracce.
Il cardinal del Monte e la chiamata di Caravaggio
Ecco allora, dice il Baglione, che Caravaggio «per opera del suo Cardinale ebbe in S. Luigi dei Francesi la Cappella de’ Contarelli». Caravaggio nel 1599 fu chiamato a riparare l’inadempienza del D’Arpino e a realizzare i due dipinti laterali della cappella.
Il martirio di Matteo
Il martirio di Matteo, laterale destro della cappella Contarelli Il primo di questi ad essere realizzato sembra fosse quello del Martirio di San Matteo. Ebbene sì, iniziamo dalla fine. O sarebbe più giusto dire, cominciamo da quello che cristianamente è un inizio: il martirio, l’uccisione del Matteo celebrante. La critica ha definito il soggetto di quest’opera una «catastrofe sacra», raccontata come fosse «un fatto di cronaca nera in una chiesa romana».
particolare del martirio di Matteo
Matteo, sdraiato a terra con le stesse braccia aperte che poco prima ergeva orante sull’altare, è stato colpito dalla spada dell’aguzzino. Del sangue macchia la veste bianca, mentre egli con un ultimo sforzo si protende ad accettare la palma del martirio. A porgerla è una delle figure più incantevoli pensate dal Caravaggio. Un ragazzetto di cui vediamo il braccio teso in giù, un nido di capelli, due ali spennellate e il corpo incurvato, adagiato sulla nuvola e tagliato dalla luce: un angelo. Al pacato dinamismo di questo giovinetto si contrappone il terrore d’intorno. Scatti, gesta, grida e fughe caratterizzano gli altri personaggi. I due catecumeni con i loro corpi nudi fungono da quinte di manierista memoria. Piene di pathos sono le espressioni del ragazzino e dell’uomo che preso d’orrore apre le braccia, fino al celebre volto, forse un autoritratto, dell’uomo impietosito sul fondo.
particolare del martirio di Matteo, probabile autoritratto di Caravaggio Questo è il nuovo inizio di Matteo, il quale viene martirizzato nel luogo in cui prende vita l’esistenza cristiana purificata dal peccato originale: la vasca battesimale. Questo fu inizio anche per il pittore Caravaggio: la prima opera a più figure realizzata per una committenza pubblica. Che meraviglia!
La vocazione di Matteo
La vocazione di Matteo, Il martirio di Matteo, laterale sinistro della cappella Contarelli L’altra tela che Caravaggio realizzò è la Vocazione di Matteo. Qui una bipartizione è marcata dal vestire e dalla posizione delle figure: sulla destra, in piedi, in abiti classici Cristo e l’apostolo Pietro. Da loro, il gesto pacato e certo del braccio levato, della mano e dell’indice a chiamare, genera l’attenzione dell’altro gruppo: degli uomini seduti al tavolo in abiti seicenteschi.
particolare della vocazione di Matteo
Un terremoto pervade l’aria di questa stanza. I due giovani seduti sugli angoli di destra del tavolino si volgono a Cristo, con i loro vestiti che richiamano alla nostra mente il dipinto dei bari o della buona ventura.
Dal lato opposto due figure assorte non levano il viso, l’uno, il più giovane per disperazione forse.
Chi è Matteo?
Tra questi, Matteo, centrale: colui che, da buon esattore delle tasse, ancora chiede pegno battendo sul legno la mano destra, mentre con la sinistra levata dice ciò che nella storia è affidato alle parole: ‘chiama proprio me?’. Molto si è discusso e si discute sul quale sia la figura di Matteo. A me pare manifesto: centrale, dinamico (si osservi il movimento di rotazione che compie con le gambe), con lo sguardo e il corpo è rivolto a Cristo. Infine quell’indice puntato a sé. Puntato a sé perché differentemente dal polso e dal dorso della mano, il dito teso sfugge alla luce, suggerendo la direzione di una chiamata rivolta a proprio a lui.
particolare del personaggio di Matteo, nella vocazione di Matteo Tutto su questa tela è plasmato da una luce pulviscolare, la citazione della mano michelangiolesca, il profilo e i piedi danzanti del Cristo, la mano imitante di Pietro (una figura questa, che fu posta in secondo momento) mediatrice tra gli osservatori e Cristo. Plasmati poi dalla luce salvifica e direzionale sono i volti di coloro che si accorgono della nuova presenza, tra tutti, Matteo.
Particolare del volto di Cristo nella vocazione di Matteo E’ proprio la provenienza di questa luce a destare la curiosità di molti studiosi e a far fiorire le più svariate ipotesi: dall’ambientazione esterna della scena, allo scantinato. E torniamo con ciò a quanto prima si era annunciato: il contesto. Caravaggio non fece altro che riprendere la posizione dell’unica fonte di luce naturale della cappella.
Andate a vederla, ma non mettete il gettone, prima godetevi le tele sfiorate dalla luce naturale e immergetevi nell’originaria essenza di quel dipingere caravaggesco. Una Meraviglia!
Il ‘primo’ San Matteo e l’angelo. La storia della tela che fu detta rifiutata.
Ma torniamo alla storia e immaginiamoci questi due capolavori del Caravaggio adornare la cappella all’inizio del Seicento con al centro la statua del San Matteo scrivente del Cobaert. La statua? quale statua? Ah già, quella statua non c’è oggi, la possiamo ammirare nella chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini. Non c’è perché non piacque, non convinse, nonostante i lunghi tempi occorsi per la realizzazione. Ed è proprio in questo tempo di gestazione che al Caravaggio fu probabilmente richiesto di realizzare una tela con il medesimo soggetto: Il San Matteo e l’angelo. Un’altra meraviglia!
San Matteo e l’angelo, prima versione Il pittore trasferisce sulla tela un rapporto d’intimità inedito tra esseri di diversa natura. Un giovane angelo prende la mano del Matteo adulto e analfabeta e lo accompagna nello scrittura. La dolcezza è quella di un padre che insegna a scrivere a suo figlio, la realtà del quadro è però invertita. L’angelo svogliato sdraiato sul librone, il volto stupito di Matteo, la sua mano che si lascia guidare e i suoi piedi che irrompono sull’altare.
Questa tela oggi non esiste più, fu distrutta dalle bombe che caddero su Berlino. Arrivò probabilmente lì non in quanto rifiuto, come le fonti ‘maligne’ si affrettarono a riportare, quanto piuttosto quale prima versione, una sorta di Lectio facilior provvisoria che ancora seguiva le indicazioni contrattuali di Matteo Contarelli (1565 nella commissione al Muziano). Il contratto citato indicava un’iconografia ben precisa: il San Matteo in sedia e l’angelo in piedi al suo fianco. A quest’opera probabilmente realizzata a cavallo del volgere del secolo e acquistata poi da Vincenzo Giustiniani, seguì nel 1602 la commissione e il compimento del San Matteo e l’angelo che ancora vediamo in situ. Una tela dimensionalmente, stilisticamente e iconograficamente più confacente ai nuovi laterali della cappella.
Il ‘secondo’ San Matteo e l’angelo
San Matteo e l’angelo, seconda versione. Tela centrale della cappella Contarelli Che meraviglia: un angelo cala dall’alto e inizia a dettare le generazioni bibliche con le quali si dà inizio al Vangelo di Matteo. Il santo sobbalza dalla sua posizione di scrivente, si torce e rischia di far rovinare lo sgabello sull’altare. Una composizione più slanciata, nella quale i piedi permangono sull’altare e le mani dell’evangelista sul librone. Anche qui le figure del santo in actu scribentis e quella dell’angelo in actu dictandi emergono da un fondo scuro con tutta la loro forza espressiva.
Che meraviglia venire qui in questo luogo e guardare lì dove lo stesso autore potè ammirare le opere frutto della sue mani. Vederle dunque eccezionalmente come e dove le vide e le pensò Caravaggio. Una meraviglia!
Ancora Caravaggio:
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Il riposo durante la fuga in Egitto di Michelangelo Merisi da Caravaggio
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Il racconto di oggi inizia nell’incertezza. Nella stessa incertezza che è propria di alcuni della vita e delle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un po’ come se il chiaroscuro pervicace delle sue tele si riverberasse, aspro e iconico, sulla persona e sull’artista. Questa tela, Il riposo durante la fuga in Egitto, è una delle prime opere a noi note del giovane pittore lombardo giunto a Roma. Fu probabilmente commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini (come sostiene Mina Gregori) e, di lì a pochi anni, entrò in possesso dell’accentratrice donna Olimpia Maidalchini (ve la ricordate? ne abbiamo parlato nel video dedicato alla Fontana dei Quattro fiumi del Bernini). Oggi è infatti possibile ammirarla a Roma presso la Galleria Doria Pamphili.
Caravaggio giunse a Roma dopo aver percorso quelle che Roberto Longhi definì le ‘vie dei Campi’, conoscendo e facendo esperienza dell’arte dei fratelli Campi. Sopprattutto però, arricchendosi alla scuola dell’arte lombarda del Lotto, del Moretto, del Moroni e del Savoldo.
Solo ripercorrendo queste ‘vie’ possiamo contestualizzare quella che altrimenti potrebbe sembrare una figura artistica estranea alla scena della pittura a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Così si avrà a comprendere un Caravaggio figlio del suo tempo, e non del nostro.
Ma veniamo finalmente all’opera: una tela in formato orizzontale, seppure non troppo, la cui lettura la facciamo partire dal basso, dalla terra.
Vediamo dapprima un selciato sulla destra coperto di erbe e, spostandoci verso sinistra, osserviamo il disporsi, forse un po’ troppo compendiario, di sassi e foglie secche. È tra questi oggetti che poggiano i piedi dei prtagonisti, sapientemente alternati alle vesti. piedi e panneggi, panneggi e piedi e… fiaschetta! immancabile!
E dai panneggi si sale alle ginocchia stanche del San Giuseppe, attorcigliandoci anche noi come il panno bianco attorno alla sinuosa figura stante dell’angelo e abbandonandoci poi al manto soffice della Vergine, anch’esso perso nella natura verdeggiante e rigogliosa.
Saliamo ancora e in quest’ambiente bucolico, che ben poco ha del paesaggio egiziano e pare piuttosto uno scorcio di campagna romana: la Vergine si è assopita. Sfinita dal viaggio e nella continua cura del figlio, il figlio abbraccia e avvolge. Rimane un profilo di bambino di dolcezza indicibile e un volto in scorcio magistrale, che riporta alla mente la figura della Maddalena penitente. Quest’ultima è un’opera realizzata nello stesso anno (1597) e plausibilmente per lo stesso committente. Inoltre, dietro le vesti e il personaggio di Maria di Maddalena, si cela in entrambi i casi la giovane modella Anna Bianchini.
Procedendo ancora verso sinistra la scena è interrotta da una nota di naturalismo puntuale: le ali rondine dell’angelo. Ali che Caravaggio riprese dal vero, dai modelli usati nelle rappresentazioni dell’epoca e, forse, dalla sua stessa memoria e dalle immagini degli angeli del Lotto nella pala di San Bernardino in Pignolo.
Riposo durante la Fuga in Egitto Pala di San Bernardino in Pignolo,
Lorenzo Lotto
L’angelo sembra suonare una pausa, con il volto e l’archetto leggermente sollevati dal violino. Lo sguardo è fisso sullo spartito, leggibile e riconoscibile. Si tratta di un brano del musicista fiammingo Noel Bauldewijn composto nel 1519 e ispirato al Cantico dei Cantici. Maria è qui madre e sposa.
Riposo durante la fuga in Egitto, particolare Ed eccoci a San Giuseppe ‘leggio umano’: gli angeli di Caravaggio sembrano non avere memoria e necessitano sovente di leggii e spartiti. Guardando con attenzione ci accorgiamo che lo stesso modello fu prima San Matteo e Abramo e che siede ora su un sacco più volte usato dal Caravaggio per allestire le scene. Questi sono particolari che rendono Caravaggio vivo e tangibile. Che ci mostrano il dietro le quinte e un pittore che sceglie i suoi modelli, che li fa posare utilizzando oggetti di scena e, che in questo caso, ‘fa bosco’ nel suo studio.
Il San Giuseppe è in questo dipinto estasiato dalla grazia del giovane angelo. C’è grazia di certo nella figura, ma grazia è in quello che egli suona e nelle promesse che questo brano porta con sé:
Quanto sei bella e quanto sei graziosa, Carissima mia, in mezzo alle delizie. La tua statura somiglia a una palma e a grappoli somigliano i tuoi seni. Il tuo capo è simile al monte Carmelo […] Una torre d’avorio è il collo tuo.[…] Vediamo se la vigna è tutta in fiore, se i fiori partoriscono la frutta, se sono tutti in fiore i melograni. I seni miei in quel luogo ti darò.
Quanto è umano questo Giuseppe che, non potendo gesticolare con le mani, lo fa coi piedi, regalandoci un brano di pittura eterno.
Giungendo nell’angolo in alto a sinistra ci accorgiamo che è il momento dell’asino (immancabile nell’iconografia della Fuga in Egitto). Costretto anche lui nel quadro fa da fondale ‘peloso’ al San Giuseppe, mentre spostandoci verso destra, diviene anch’esso protagonista col suo occhione diretto dritto verso lo spettatore. Di qui i capelli scompigliati del giovane, al quale Caravaggio ci ha abituato, e la natura, di querce e graminacee, fino a giù sulla destra dove si apre un paesaggio collinare. Il pittore dà all’intera composizione una collocazione reale e plausibile, un particolare nient’affatto scontato nella raffigurazione di una scena biblica.
Caravaggio e il suo committente scelsero di rappresentare il più tragico episodio dell’infanzia di Gesù mettendo in risalto la quotidianità e la familiarità delle relazioni. E, in questa quotidianità, dare spazio e valore a quell’unguento profumato che la musica, l’arte, la poesia possono essere nella vita di ciascuno.
E, se l’angelo stesse veramente suonando un pausa, potremmo trarre da qui un vivido appiglio. Dovremmo cambiare prospettiva e vivere le pause delle nostre vite, questa grande pausa che il Covid sembra essere e che tutti accomuna, come pause ‘da suonare’ in attesa e con il fine della musica. Pause da suonare anelando al momento in cui l’archetto accarezzerà di nuovo le corde di quel violino. La mano, come sempre ci insegna Caravaggio, è la nostra!
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Il Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio
Tre pinguini a spasso per il museo di Kansas City sembrano preferire il giovane adombrato San Giovanni di Caravaggio alle chiare, fresche e dolci acque di Claude Monet.
Qual è il destino di Caravaggio? Quali le nuove proposte dei musei? Queste domande sembrano intrecciarsi e amplificarsi difronte alla magnifica tela del Seppellimento di Santa Lucia.
Un po’ come uno dei tre pinguini da bambino ho vagato per la piazza arroventata di Siracusa, ad occhi chiusi, perché impossibile per i miei occhi di bambino resistere al chiarore del sole africano che si specchiava sulla lucente pietra bianca. L’unico spiraglio d’ombra: una chiesa. Entrammo per un po’ di refrigerio e per la curiosità che sempre ti prende al vedere una porta aperta. Davanti un quadro, che rimase fisso nella mia mente, Il seppellimento di Santa Lucia. Non sapevo chi fosse Caravaggio, e nemmeno me ne importava, mi rimase però dentro quel buio, squarciato dalla luce.
Solo una decina di anni dopo scoprii chi fosse Caravaggio: la mano profondamente umana, che tolse alla natura e al tempo il dominio sulle quelle ed altre potentissime figure.
La commissione dell’opera
A lui, artista esiliato e costretto alla fuga dalla capitale, alla quale tanto aveva dato e dalla quale tanto aveva imparato, fu commissionata l’opera che doveva adornare il luogo del martirio della giovane vergine cristiana Lucia. Fu forse (così scritto dal Bellori) con l’aiuto dell’amico degli anni romani Mario Minniti, il quale lo presentò al Senato della città di Siracusa, che Caravaggio ottenne questa commissione per la tela da realizzare in Santa Lucia al Sepolcro (fuori le mura della città).
Descrizione della tela
Una parete rocciosa incombe sui personaggi e prende la metà superiore del dipinto. Non più drappi, non più campagne romane: bensì la fredda, nuda roccia, forse un ricordo della Latomia del Paradiso, rinominata dal Caravaggio orecchio di Dionigi (così chiamato perché un fenomeno acustico permetteva al tiranno di ascoltare i suoi prigionieri). Un Caravaggio conosciuto come naturalista e che riprende come espedienti scenici i paesaggi, gli ambienti più umili – benché in quest’ultimo periodo più sublimi – per ambientarvi la tragicità di una vergine tradita dal suo fidanzato per non aver voluto concedersi. E le crepe della parete rocciosa, ripercorrono fragili e carnali il corpo della santa, che di celeste ha ben poco: la sua persona mista alla terra, le vesti tutte terrene, un volto, solo accennato dalla luce.
La santa è il fulcro dell’opera non subito percepito, perché prima di arrivare a vederla, lo sguardo deve passare dalle due sagome colossali dei becchini che escono nello spazio dello spettatore. Deve scendere dal pastorale e dalla mitria luminosa del vescovo e percorrere i volti dolenti degli uomini e delle donne che piombano a picco sull’immagine stesa della santa. Lei: l’unica linea orizzontale del dipinto. Un vero e proprio centro gravitazionale.
Su questo, Caravaggio compie uno degli scorci più incantevoli e azzardati dell’arte, racchiudendo il braccio disteso in poco più di trenta centimetri. Una prospettiva costruita con figure umane che creano una spazialità complessa plasmata e attraversata dalla luce che irrompe da destra.
Le tonalità sono brune, terrose. È questa la cromia severa delle opere tarde del Caravaggio che utilizza largamente il colore base della preparazione. Il rosso della veste del diacono, un tocco di colore, il tocco simbolico che riassume e incarna la passione di Cristo. Le dita intrecciate del diacono, la mano benedicente del vescovo, le mani congiunte e quelle portate al viso, le mani esanimi della santa e quelle fin troppo animate che scavano la fossa: una passione di mani questa, una vicenda umana, orchestrata dall’uomo e illuminata da Dio.
Da Siracusa al Mart di Rovereto
Da Santa Lucia in Sepolcro a Palazzo Bellomo a Santa Lucia in Badia (dove la vidi) a non si sa dove. La tela ha scampato l’esposizione a Taormina per il G7 e oggi è di nuovo al centro del dibattito perché in procinto di essere accolta per un periodo al MART di Rovereto. Certo, lì verrebbe curata, restaurata, dotata di una teca che ne mantenga le giuste condizioni per il corretto mantenimento della fragile tela. Il tutto per un valore di 350 mila euro. Questa la cifra sbandierata da Sgarbi (presidente del MART). È pratica recente spostare opere con la motivazione aggiuntiva del restauro (di cui la tela ha un estremo bisogno). Si valuti caso per caso e mai trascurando il valore primario della tutela, sì, primario rispetto a valorizzazione, perché senza opere cosa valorizzi?
Una domanda mi sorge spontanea e credo possa svicolare le urla le polemiche e le recriminazioni di questo caso… se Caravaggio non andasse al MART, perché il MART non va da lui?
In fondo anche dei pinguini hanno scelto di andare da Caravaggio. Io comunque difronte a cotanta bellezza, mi taccio e alzo le mani!