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«Abbiamo fatto un buon lavoro». La storia di Saman Abbas.
«Abbiamo fatto un buon lavoro». In quale contesto collochereste questa frase? A scuola, in un’azienda, al termine di una partita di calcio o della realizzazione di una mostra. Potrebbe esser detta chiudendo la porta dell’ufficio, il cancello dell’orto o di una fabbrica.
Le percepiamo come parole colme di un sentimento di realizzazione, pure condiviso.
Come cambia il valore delle parole.
Saman Abbas, sparita e probabilmente uccisa senza lasciare tracce. «Un buon lavoro».
Una giovane donna che stava per ‘disonorare’ la sua famiglia, messa a tacere. «Un buon lavoro».
Una diciottenne riluttante a un matrimonio imposto, considerata un problema e in quanto tale, risolto. «Un buon lavoro».
«Abbiamo fatto un buon lavoro» ha scritto lo zio di Saman in un suo sms, riferendosi forse (è ancora tutto da accertare) a quanto fatto alla ragazza, la quale risulta scomparsa da giorni.
Il male, potrà pure essere banale, ma riesce permeando a cambiare persino colore alle parole, trascinandole giù e ancora giù. Il male e la sua bassezza si insinuano quest’oggi in uno dei termini più nobili spiritualmente ed eticamente fondanti del nostro vivere: il lavoro.
Quel lavoro sul quale si fonda il nostro Stato.
Quel lavoro nel quale la nostra quotidianità trova valore e significato.
Quel lavoro che dovrebbe sostenere la vita, realizzarla, mai svilirla o toglierla.