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Il cretto di Gibellina di Alberto Burri – PODCARD
Con la solità brevità dei nostri Podcards, scopriamo oggi una delle opere di Land art più celebri e intense della storia dell’arte italiana e mondiale: il cretto di Gibellina.
Il 14 gennaio 1968 un violento sisma cambiò per sempre la vita degli abitanti della Valle del Belice, tra questi luoghi vi era la città di Gibellina. Il sindaco Ludovico Corrao scelse quest’ultima come luogo simbolo della rinascita post-terremoto .
Per questa ricostruzione e riqualificazione vennero chiamati grandi artisti. I più celebri sono Mario Schifano, Andrea Cascella, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Franco Angeli, Leonardo Sciascia, Ludovico Quaroni, Franco Purini ed infine Alberto Burri.
Quest’ultimo scelse di realizzare un’opera di gran lunga differente rispetto a quelle dei suoi colleghi.
«Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.»
Alberto Burri -
Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso
Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso è l’opera che spalanca le porte all’arte del Novecento. Realizzata nel 1907 e oggi conservata al MoMa di New York è la tela simbolo di quello che sarà, l’anno successivo, iniziato a definire ‘cubismo’. Tre nomi, insieme a quelli di Picasso e Braque (i padri di questa arte), ci aiuteranno a comprendere la genesi di quest’opera e a entrare in questa tela mostruosa.
Mostruosa, nel senso letterale e originario del termine: un qualcosa che crea scalpore, un prodigio, un ammonimento. Sì perchè fu proprio stupore, spesso tendente a sdegno, che quest’opera provocò nel 1907, in chi la vedeva. E tra gli altri è importante ricordare lo sprezzo del critico Louis Vauxelles il quale, nel 1908, scrivendo di ‘bizzarries cubistes’, andò a definire quel nascente movimento: il cubismo.
Les demoiselles d’Avignon e Henri Matisse
Il primo nome che ci aiuterà a penetrare al dentro dell’opera è quello del celebre artista e amico di Picasso Henri Matisse. Egli sembra avere un ruolo chiave nell’esperienza artistica del cubismo in genere (aveva descritto alcune tele di Georges Braque come composte da “piccoli cubi”), ma anche nell’elaborazione de Les Demoiselles d’Avignon. L’artista infatti aveva acquistato una tela di Cézanne raffigurante tre bagnanti e, Picasso, sicuramente ebbe modo di osservarla e poterla studiare. Il tema delle bagnanti, soggetto classico per la raffigurazione di nudi senza la generazione di scandali e clamori, era allora molto praticato.
La classicità e Les demoiselles d’Avignon
Sembra che Picasso partì proprio da qui per l’elaborazione della sua tela. Ne sono sintomo e segnale la nudità dei corpi e la similarità delle pose di due tra le cinque donne raffigurate. Si noti, tra l’altro, anche il forte richiamo alla classicità, alla Venere di Milo, o al prigione michelangiolesco. Ma Picasso riprende dall’iconografia delle bagnanti anche il drappo che scende lateralmente e che, la prima donna pare scansare con entrambe le mani per entrar nel dipinto.
Dunque un tema già trattato in pittura e non poco. Solo che Picasso lo decontestualizza, traendolo fuori dalla sua aurea innocua e antica e facendo di quei cinque corpi, che dai bozzetti pare dovessero essere accompagnati da due uomini, delle prostitute di uno dei più celebri bordelli (il d’Avignon appunto) di Barcellona. Picasso, come molti degli artisti a lui contemporanei, ritrae la società del suo tempo, ne coglie le contraddizioni e ne carpisce gli umori.
Picasso e la scultura africana
Sempre a Matisse, e certamente alla temperie culturale che pervadeva la Parigi di inizio Novecento, è collegata la fascinazione da parte di Picasso per la scultura africana. Max Jacob ricorda che Picasso scoprì le prime sculture proprio nell’atelier di Matisse e che, il giorno dopo averle vedute iniziò a realizzare alcuni disegni di teste con un solo occhio. L’arte tribale africana, con le sue linee schematiche e geometriche entra anche nelle Demoiselles e in numerose altre opere dello stesso periodo. Maschere, acconciature, tagli, colori.
Cézanne e Les demoiselle d’Avignon
Cézanne è il secondo nome, già in parte citato, che ci permetterà di comprendere gli studi di Picasso su quest’opera. Partiamo da una delle citazioni più celebri che illustra la volontà dell’arte di Cezanne:
«Bisogna trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono».
CézanneUna sorta di natura geometrizzata, comprensibile e quindi sintetizzabile in forme semplici. Questo percepiamo nelle tele di Cezanne, e in parte lo osserviamo anche nelle opere cubiste, dove però, avviene un ulteriore passaggio. Un passo dettato dalla volontà di comprendere a fondo la realtà, tralasciando il visibile, scomponendola e riportandola sulla tela mostrandone tutte le facce. Non più dunque un pittore che osserva e ritrae un mondo composto di solidi, bensì un artista che gira attorno alla realtà la comprende nel complesso e tenta di restituirlo per intero in barba alle regole della verosimiglianza e del naturalismo.
«Il cubismo ha obiettivi plastici. Non lo consideriamo solo uno strumento per esprimere ciò che percepiamo con l’occhio e con la mente, sfruttando tutte le possibilità che appartengono ai requisiti essenziali del disegno e del colore. Ciò è stato per noi una fonte di gioie inaspettate, una fonte di scoperte»
Pablo PicassoNel dipinto vi è infatti una pluralità di prospettive e punti di vista, una compresenza che fa sì che non venga più percepito come una finestra che dà su un bordello, bensì come uno studio, umano e scientifico, nella sua frammentazione di ornato bidimensionale.
E infine…Albert Einstein e Les demoiselles d’Avignon.
Albert Einstein L’ultimo nome è quello di Albert Einstein. Non certo perchè i due si conoscessero, ma per una profonda casualità entrambi iniziarono a percepire e comprendere l’importanza della variabile tempo all’interno dei propri studi. Il tempo viene considerato in qualità di quarta dimensione, nella scienza (con un articolo del 1905 nella rivista «Annalen der Physik») come nell’arte. Picasso e il cubismo, in altre parole, non rappresentano l’istante, bensì l’evoluzione della loro conoscenza del reale, tanti momenti di studio, di visione e di comprensione, restituendo allo spettatore un’esperienza (non un immagine) della realtà.
Le cinque donne e la natura morta
Ecco allora le cinque cinque donne in pose differenti. Dalla figura rappresentata di profilo sulla sinistra, che richiama alla mente i profili egizi, lo sguardo passa alle pose statuarie delle due figure centrali per poi posarsi sulle due ultime donne africanamente ‘trasfigurate’, l’una in piedi l’altra accovacciata.
Cinque prostitute non erotiche, donne che mostrano la contraddizione di un’epoca
E in questa lettura da sinistra a destra non si dimentichi la natura morta alla base del dipinto. Un simbolo che ci ricorda quanto l’uomo oggi come allora, non sia altro che parte di quella natura e forse, che sia l’uomo invece nell’errore a chiamare morta ciò che più d’ogni altra cosa è manifestazione di vita.
Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard Picasso e Apolinnaire: la poesia dedicata al pittore
A Picasso
Non ho più nemmeno compassione di me
E non so come esprimere il tormento del mio silenzio
Tutte le parole che avevo da dire si sono mutate in stelle
Un Icaro tenta di alzarsi fino ai miei occhi
E portatore di soli ardo al centro di due nebulose
Che cosa ho fatto alle bestie teologali dell’intelligenza
In passato i morti riapparvero per adorarmi
E io speravo la fine del mondo
Ma arriva la mia col sibilo d’un uragano
Ho avuto il coraggio di guardare indietro
I cadaveri dei miei giorni
Segnano la mia strada e li piango
Alcuni si putrefanno nelle chiese italiane
O in boschetti di limoni
Che fioriscono e insieme fruttificano
In ogni stagione
Altri giorni hanno pianto prima di morire in taverne
Dove fiori di fuoco rotavano
Negli occhi d’una mulatta inventrice della poesia
E le rose dell’elettricità s’aprono ancora
Nel giardino della mia memoria
Osservo il riposo domenicale
E lodo la pigriziaCome come ridurre
L’infinitamente piccola scienza
Che m’impongono i sensi
Uno è simile alle montagne al cielo
Alle città al mio amore
Somiglia alle stagioni
Vive decapitato la sua testa è il sole
E la luna il suo collo mozzato
Vorrei provare un ardore infinito
Mostro del mio udito tu ruggisci e piangi
li tuono ti fa da chioma
E i tuoi artigli ripetono il canto degli uccelli
li tatto mostruoso m’ha penetrato m’avvelena
I miei occhi nuotano lontano da me
E gli astri intatti sono i miei àrbitri senza prova
La bestia dei fumi ha la testa fiorita
E il mostro più bello si desola
Nel suo sapore d’alloro
Alla svolta d’una via vidi dei marinai
Che a collo nudo ballavano al suono d’una fisarmonica
Ho regalato tutto al sole
Tutto meno la mia ombra
Le draghe le mercanzie le sirene mezzemorte
Sprofondavano nella bruma dell’orizzonte i trealberi
I venti spirarono coronati d’anemoni
O Vergine segno puro del terzo mese.Vedi anche…
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Le Violon d’Ingres di Man Ray-PODCARD
Man Ray immortalò la sua Musa e Amante Kiki de Montparnasse in uno scatto che la ritrae seduta di schiena completamente nuda.
Di lei non vediamo le gambe e le braccia, quello che emerge del suo corpo è solo la curvatura delle spalle, il profilo dei fianchi e quello dei glutei.
Il volto è girato di tre quarti quasi a voler ammiccare all’osservatore.
Indossa solamente un paio di orecchini e un turbante.
Accessori che rievocano uno dei miti dell’erotismo occidentale nel XIX secolo, un soggetto caro alla storia dell’arte : l’odalisca.
Sul quel corpo Man Ray traccia due effe. E così improvvisamente Kiki, dalle forme tonde, morbide e desiderose, si trasforma in un violoncello, in uno strumento da suonare, da toccare e da possedere.
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L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp-PODCARD
Duchamp partì una cianografia, una cartolina tra le più dozzinali e scadenti in commercio, della più celebre opera di Leonardo da Vinci e vi disegnò sul volto baffi e pizzetto.
In calce scrisse l’acronimo L.H.O.O.Q. (Elle a chaud au cul) il quale suono corrisponde alla fase irriverente di «ella ha caldo al culo».
Un’operazione dissacrante che cela un messaggio più profondo della semplice provocazione. La scelta della Monna Lisa è una chiara critica al modello estetico promosso nel tardo ottocento, e alla contemporanea industria della divulgazione che aveva ormai svalutato la venerata icona leonardesca facendone una merce pronta al mero consumo.
Come ricorda Thierry De Duve in ARTEFATTO
vi devono essere quattro condizioni per FARE ARTE :
un referente («questo»), un enunciatore (ossia l’«artista» meglio ciò che rimane di esso) un destinatario («il pubblico») e infine un’istituzione , ovvero un «contesto» entro cui questo incontro accade.
Thierry De DuveIl merito di Duchamp è quello di aver insegnato che il ruolo dell’artista è soltanto una delle quattro componenti.
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L’impero delle luci di Renè Magritte-PODCARD
Un paesaggio avvolto nel mistero, dove convivono il giorno e la notte.
Al centro un piccolo lampione che illumina con la sua luce fioca una casa, affianco un enorme albero che si staglia cupo su di un cielo azzurro.
Un ossimoro in arte, che ci lascia stupiti e incantati al tempo stesso e che è metafora della vita.
Lo stesso Renè Magritte nel 1966 :
«Dopo aver dipinto L’empire des lumières, ho avuto l’idea della notte e del giorno che esistono insieme, come fossero una sola cosa. E’ ragionevole: nel mondo il giorno e la notte esistono nello stesso tempo. Proprio come la tristezza esiste sempre in alcune persone e allo stesso tempo la felicità esiste in altre»
Magritte senza abbandonare le tecniche convenzionali della pittura mette in dubbio la percezione dell’osservazione. Questo è surrealismo!
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Nudo di spalle di Umberto Boccioni-PODCARD
Una donna anziana a mezzo busto seduta su una sedia.
Di lei vediamo la schiena nuda, rivolta all’osservatore, mentre il capo è di profilo. Il braccio sinistro, ricade lungo il corpo, mentre quello destro, lo si intravede appoggiato allo schienale della sedia.
La luce filamentosa irrompe nella stanza, accarezzando dolcemente la donna, esaltandone i lineamenti a tratti duri e spigolosi del volto e la morbidezza del corpo.
Sottile linee di colore danno vita al dipinto, creando un’atmosfera vibrante ed enfatizzando la plasticità anatomica del corpo, del corpo di una donna, del corpo di una madre.
Boccioni la dolcezza e il colore, la premura di un figlio che da dietro protegge e cura.
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Margherita Sarfatti: la donna del Novecento italiano
Mario Sironi tra il 1916-17 ritrasse, in atteggiamento intimo e famigliare, Margherita Sarfatti. Donna colta, poliglotta , emancipata e contraddistinta da una curiosità intellettuale fuori dal comune, curiosità, che la rese la donna del Novecento italiano.
Margherita Grassini Sarfatti
Margherita Grassini nacque l’8 aprile 1880 in una ricca famiglia ebrea e si formò con i migliori maestri: Antonio Fradeletto, Pompeo Momenti e Pietro Orsi. Con essi ebbe il privilegio di instaurare un vero dialogo culturale, formando un suo pensiero critico, politico e artistico.
Giovanissima, a soli diciotto anni, incontrò un altro protagonista della Venezia semita, Cesare Sarfatti, avvocato e impegnato attivamente nel socialismo. Contro il parere dei genitori di lei, i due si sposarono nel 1898.
La carriera di giornalista
Insieme, decisero di trasferirsi a Milano (1902) in via Brera 19, ed è proprio in questa città, nella quale aleggiava un fermento culturale e sociale, che ebbe inizio la carriera della giovane donna. Fin da subito, sotto la guida del marito, iniziò a scrivere per l’Avanti della domenica, la versione socialista del borghese Corriere, battendosi per l’uguaglianza e la parità di genere e proponendo, quello che venne definito, un femminismo pratico. Dal 1909 fu nominata responsabile della rubrica di critica d’arte dell’Avanti! Giornale socialista.
Sarfatti Iniziò a farsi largo nell’ambiente culturale milanese, frequentando il salotto socialista per eccellenza guidato dalla signora Anna Kuliscioff e Filippo Turati.
Da via Brera i coniugi si trasferirono in corso Venezia 93. Qui trovarono un vicino di casa non di poco conto: Filippo Tommaso Marinetti. Fu proprio in questi anni (1910) che egli insieme a Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Gino Severini e Giacomo Balla diedero vita ad un’arte intesa come manifesto di profondo sentimento di malcontento e rivolta: il Futurismo.
Umberto Boccioni, Controluce (1916) Collezione Sarfatti Sarfatti, entusiasta sostenitrice di questa nuova tendenza artistica, decise di mettere a disposizione il suo salotto al civico 93 per riunire “fra mobili di stile, quadri e oggetti d’arte” i più importanti artisti e intellettuali milanesi nelle serate del mercoledì.
L’entusiasmo della donna per l’arte futurista si placò nel 1911 quando, di ritorno da Parigi, Umberto Boccioni contaminò il suo modo di dipingere con le sperimentazioni cubiste di Picasso. Questo fatto fu interpretato dalla scrittrice come una perdita da parte dell’arte italiana di visione personale e autonomia.
L’incontro con Mussolini e i venti di guerra
Nel 1912 l’incontro con Mussolini non implicò solamente l’inizio di un legame sentimentale, ma l’avvio di un effettivo sodalizio politico e culturale. Entrambi provenienti da ambienti socialisti, se ne allontanarono per fondare la rivista il Popolo d’Italia, di cui la Sarfatti fu redattrice per la sezione letteraria e artistica. Di lì a poco scoppiò la guerra.
Seguirono anni duri, contraddistinti dalla perdita al fronte dell’amato figlio Roberto e dell’amico fraterno Umberto Boccioni. La collaborazione avviata con Mussolini la portò ad essere una delle figure più attive nella fondazione del Partito Nazionale Fascista (1921).
Il dolore e la paura innescati dalla guerra generarono nel mondo culturale l’esigenza di riprendere la grandezza della tradizione artistica del passato e renderla eterna. Fu dunque auspicato e sempre più invocato da alcuni un “ritorno all’ordine”, un’arte che potesse parlare agli uomini, al popolo.
Novecento
È proprio in questo clima di affermazione del bello e di armonia, contrapposte alle dissonanze dell’arte cubista, espressionista e futurista che, Margherita Sarfatti, si farà portavoce di un gruppo di sette artisti: Mario Sironi, Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig. In un primo momento anche Ubaldo Oppi prese parte a questi artisti che si incontrarono nella galleria di Lino Pesaro a Milano, per unirsi sotto il nome di Novecento (1922).
Sarfatti riconosceva in questi artisti il ductus di un’arte moderna originata dalla classicità, ma rinnovata e mai sterile, rivolta verso “la più vera delle verità, la bellezza”.
La Biennale del 1924
Così scrisse di loro alla Biennale di Venezia del 1924:
“Questi nostri pittori, si può obiettare, non toccano ancora il punto dove lo sforzo dell’arte si dissolve e scompare tutto nella magia evocatrice delle immagini e dei sentimenti. A tale vertice non è dato giungere d’un tratto. La preoccupazione della tecnica, come di un mezzo e di un linguaggio ancora troppo greve, in parte soverchia – è vero – la cura delle cose da dire: ma solo attraverso la conquista di un linguaggio tecnico nobilmente ordinato e perspicuo, i sentimenti e i concetti possono trovare espressioni di umanità e di limpida bellezza”
Pietro Marussing, L’autunno (1924) Mart di Rovereto; Achille Funi, Una persona due età (1924) Collezione privata; Mario Sironi, L’allieva (1924) Collezione A. Deana; Leonardo Dudreville, Amore discorso primo (1924) Fondazione Cariplo; Anselmo Bucci, Gli amanti sospesi (1920-21) Casa museo quadreria Cesarini; Gian Emilio Malerba, Maschere (1922) GNAM di Roma. Divenuta la signora di Milano, ella s’impegnò ancora di più sul fronte politico nella propaganda fascista. Lo fece come direttrice della rivista di partito Gerarchia, attraverso la pubblicazione di articoli e discorsi mussoliniani per la stampa estera, e la scrittura della biografia DUX (1925). In ambito artistico, nonostante le critiche ricevute alla Biennale del 1924, si impegnò in una vera e propria campagna di “colonialismo estetico”, aprendo le porte di Novecento ad un ampio numero di artisti della nuova generazione.
Novecento italiano e la rottura con Mussolini
Manifesto mostra Novecento italiano (1926) Furono invitati ad esporre al Palazzo della Permanente di Milano (1926) centoquattordici artisti. Questo fu un importante evento artistico e politico, al quale partecipò anche Benito Mussolini come presidente onorario del Comitato. Il movimento Novecento sarà di qui in poi Novecento Italiano.
Attraverso questo Sarfatti mirò ad esprimere i valori del nazionalismo fascista. Propose e aspirò non tanto a “un’arte per l’arte”, bensì a un’arte che potesse essere strumento di propaganda politica ed essa stessa incarnare i valori del fascismo. Suo malgrado Mussolini non era della stessa opinione. Con una lettera del 1929 ripudiò tale connessione politico-artistica e rese chiara in maniera ufficiale la rottura con la donna che fino a quel momento fu la sua più grande sostenitrice e alleata.
La lettera di Mussolini
Lettera di Mussolini a Margherita Sarfatti «Gentilissima Signora,
leggo un articolo nel quale ancora una volta voi tessete l’apologia del cosiddetto ’900, facendovi alibi del Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più energica e di tale mio sentimento giungerà segno oggi stesso ai direttori dei due giornali. Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco! Il Fascismo più prudente e meno messianico, ha ipotecato soltanto 60 anni, non tutto il secolo! Del quale ancora 71 anni sono da trascorrere. Antipatico è poi, l’attacco evidente ad un ministro in carica, attacco che precede la solita sviolinata nei miei riguardi; sviolinata che voi, sopratutto voi, vi dovreste perennemente proibire. Poiché voi non possedete ancora l’elementare pudore di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre invenzioni artistiche o sedicenti tali, non vi stupirete che alla prima occasione e in un modo esplicito, io preciserò la mia posizione e quella del Fascismo di fronte al cosiddetto ’900 o a quel che resta del fu ’900.Distinti Saluti Mussolini
Roma 9 luglio 1929-VII »Margherita Sarfatti, l’America, l’esilio e la morte
Sarfatti, allontanandosi a sua volta dall’ideologia fascista sempre più vicina alla Germania hitleriana, iniziò ad essere tagliata fuori dagli ambienti politici e culturali, mentre il suo salotto in corso Venezia divenne luogo di incontro per numerosi antifascisti.
Nel 1934 partì alla volta degli Stati Uniti dove scrisse l’America ricerca della felicità (1937). La promulgazione delle leggi razziali (1938) la costrinse fu all’esilio fino al 1947. Ritornata in Italia si ritirò nella sua casa a Cavallasca, il Soldo, luogo d’ispirazione per molti artisti come : Umberto Boccioni, Mario Sironi, Giuseppe Terragni, Ada Negri, Riccardo Bacchelli, Alfredo Panzini, e Gabriele d’Annunzio.
Qui nei suoi ultimi anni solitari Margherita scrisse un’autobiografia intitolata “Acqua Passata”(1955) scegliendo di omettere dalla narrazione il rapporto sentimentale con Mussolini.
Il 30 ottobre 1961 la grande signora del Novecento, che tanto fece parlare di sé, morì in silenzio, dimenticata e all’ombra di un rapporto sentimentale che la fa tutt’oggi ricordare come “l’altra donna di Mussolini”.
Margherita Sarfatti, 1925-1930.Mart, Archivio del’900, Fondo Sarfatti.