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Giovanni Morbin racconta Something Else
L’artista ci parla personalmente della sua arte e della sua vita rispondendo alle nostre domande sulla mostra Something Else.
Giovanni Morbin, lei è nato nel 1956, non ha vissuto perciò sulla sua pelle l’educazione, la propaganda e tutto ciò che ruotava attorno allo stato fascista. Lo hanno fatto però i suoi genitori, il suo maestro Emilio Vedova e l’intera generazione che l’ha preceduta.
Crede che qualcosa di quell’esperienza sia passato, anche se sotto forma di muto travaso, nella sua infanzia e giovinezza?
Ovvio che sì. I nonni e i padri della mia generazione sono persone fortemente e direttamente coinvolte, non solo nel secondo conflitto, ma anche nel primo conflitto. Quindi sul piano domestico non credo ci sia stata famiglia in cui non fosse presente una narrazione su questi episodi. Credo che questa, nel bene o nel male, abbia totalmente pervaso la mia generazione. Penso anche che gli accadimenti degli anni Sessanta e Settanta siano una forma di deriva di questa eredità politica e culturale.
Presenza e assenza di ideologie
C’è anche un altro aspetto interessante. Si dice, e trovo che sia un banalissimo luogo comune (perché è chiaro che molte delle cose che si vogliono far esistere sono anche quelle che vengono veicolate attraverso tutta una serie di canali molto complessi) che la maggior differenza tra le generazioni degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta e quelle contemporanee, sia l’assenza d’ideologia. Ora, io nasco culturalmente da padri, chiamiamoli così, per i quali l’intellettuale ha il dovere e anche il diritto di prendere posizione su cose importanti che regolano la convivenza sociale, civile, politica, etica, eccetera.
Io sono cresciuto con queste paternità e, anche se non ho preso tutto di quelle paternità, certamente ho sentito un forte richiamo. Sono totalmente convinto che gli intellettuali siano un elemento importante in ciò che concorre a costruire l’architettura di una società a tutti i suoi livelli. Qualche volta gli intellettuali non possono sottrarsi dal prendere una posizione. Sfiorando il contemporaneo, dico che fortunatamente nelle giovani generazioni c’è una forma di ritorno ad un sentimento di questo tipo. C’è un nuovo sentimento di responsabilità, un sentimento di impossibilità di evadere certe tematiche. Questo fattore lo trovo molto interessante e mi fa sentire bene in quanto potrebbe essere l’immagine della cultura contemporanea.
Una speranza?
Aggiungo un’ultima cosa. Credo che la sezione di Simone Frangi all’interno della Quadriennale abbia in questo senso dato una visione molto efficace di questa forma di speranza. Certamente non lo ha fatto nella maniera così didascalica come accadeva negli anni Sessanta e Settanta. Lo ha fatto in modo poetico, ma lo ha fatto anche in un modo fortemente affermativo. Forse cambia la cifra dell’affermazione: non è più necessario ragionare sul simbolo, non è più necessaria l’affiliazione ad una “araldica”, però è il sentire di un individuo che dice “No! adesso, dopo tanto qualunque, sento di dovere prendere una posizione nuovamente”. E questo è molto interessante, perché secondo me oggi è stato sdoganato fin troppo.
La formazione e la forma
In un‘intervista con Daniele Capra pubblicata nel catalogo della mostra Something Else lei afferma che il Liceo Artistico illuminò di un nuovo significato il suo percorso didattico. Inoltre disse che tutti i suoi punti deboli vennero visti «come accenti preziosi, particolari che andavano sviscerati, coccolati e sviluppati – e segue – la drammatica insensatezza di gesti e pensieri del prima, divenne l’inutile necessario».
Particolari, gesti, accenti, sembrano anche essere il punto di partenza di molte delle opere in mostra: da dove vengono e dove vanno?
La frase che hai citato si riferisce maggiormente alla mia formazione pre-artistica, perché prima di approdare al liceo artistico feci una scuola tecnico-pratica: l’Istituto tecnico-industriale. Benché mi piacesse, perché ti confesso che ancora oggi sfrutto conoscenze e competenze sviluppate anche in questo tipo di scolarizzazione, non riuscivo a viverci. Per me era troppo caserma. Tutto ciò che prima non aveva senso, tutto ciò che prima produceva risultati negativi, immediatamente dopo in un batter d’ali, ciò che un secondo prima era negativo in questo nuovo contesto (il liceo artistico) prendeva forma positiva. Le cose per cui prima prendevo tre, quattro e per le quali ero perseguito, a livello scolastico si intende, improvvisamente diventavano cenni preziosi di riconoscimento. Questo per me fu scioccante, perché non capivo.
Pittura o performance?
Sulla questione formale credo che proprio questa formazione tecnica abbia forgiato nella mia produzione o meglio nella formalizzazione delle mie idee, un‘attenzione particolare alla forma compiuta. Se tu guardi i miei lavori, anche in quelli in cui parlo di atomizzazione e di dispersione materiale, c’è una riconduzione alla forma secondo un atteggiamento quasi platonico, di riordino. Emerge l’esigenza di mettere ordine, di precisare, di rendere nitida la materia.
Sul piano invece di relazione tra forma e corpo, da subito ho capito che non avrei potuto diventare un pittore. Non perché non mi piacesse la pittura, anzi avrei voluto fortemente diventare un pittore, ma per me la pittura era troppo lenta e quindi avevo bisogno di una forma di produzione bio-ritmica che mi corrispondesse maggiormente. Dunque l’azione, e di conseguenza la performance, era lo scarto minimo tra il pensare e l’agire, tra il pensare e la realizzazione dell’idea. Nelle mie sculture e nei miei lavori c’è infatti un’attenzione molto forte per il corpo e i comportamenti.
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Giovanni Morbin: cosa è il fascismo?
In Capire il potere (2002) Noam Chomsky sosteneva che fascista è qualsiasi «ideologia basata sulla dominanza, sull’egemonia e sulla supremazia dell’individuo sull’individuo, spinta da qualsiasi ragione o necessità, e frequentemente alimentata da informazioni false o manipolate». In quest’ottica quale è il fascismo o i fascismi che maggiormente ha scelto di trattare nei suoi lavori?
È molto facile: è quello più subdolo, è quello meno scultoreo, è quello meno visibile. Senza entrare nel merito di quelle che sono le novità o le evoluzioni della politica contemporanea, da sempre credo che le cose più pericolose siano quelle che meno mostrano il loro volto e quando ti appaiono si fanno immagine (e qui sta la relazione tra la necessità politica e la necessità artistica). Autore infatti per me è colui che trasforma in visibile cose che altrimenti sarebbero poco riconoscibili, dà forma alle idee.
Io penso che riprendendo i doveri della vita intellettuale ci sia anche quella di avere la responsabilità di rendere visibili cose che sembrano non essere. Questo lo dico legato a significati e significanti nel campo dell’arte, per cui opera è ciò che si vede (si chiamano appunto arti visive) mentre secondo me, vi sono anche realtà artistiche che sfuggono alla vista. Uso un esempio che mi è molto caro per spiegarmi. L’evoluzione della specie è una grande opera in atto e non è visibile semplicemente perché troppo lenta e quindi, forse, siamo noi che non riusciamo a vedere un fenomeno che è innato. Allo stesso modo penso del contemporaneo.
Un’obbligo: mostrare embrioni di verità
Penso che un autore abbia l’obbligo di mostrare embrioni di verità anche se a volte possono essere scomodi. Inoltre come dicevo prima, un intellettuale non può sottrarsi al fatto di prendere posizione su alcune urgenze. Per questo motivo ciò che delle tristezze politiche mi interessa porre in evidenza sono gli aspetti fuggevoli, perché quelli maggiormente didascalici e più evidenti non serve che siano svelati, sono già flagranti abbastanza. Le cose più subdole invece sono quelle che si offrono al limite della visibilità, e allora, lì subentra la necessità di svelarle.
Potrei citare un altro autore che mi è molto caro e che è anche molto diverso da me, perché lui lavorava su un’altra frequenza di questi lavori, penso a Fabio Mauri, che generazionalmente aveva molte più ragioni di me nel toccare e nell’avvicinarsi ad alcune contraddizioni. Credo contraddizioni sia il termine esatto.
Giovanni Morbin, Pasolini e la libertà
Proprio Fabio Mauri invitò Pier Paolo Pasolini a vedere una prova di Che cos’è il fascismo (1971). In un articolo sul Corriere della Sera (Sfida ai dirigenti della televisione, Domenica 9 dicembre 1973) Pasolini scrisse alcuni anni dopo queste parole: «Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre». Anche Pasolini aveva individuato dei fascismi meta-storici che erano parte integrante della sua epoca, potremmo usare le stesse parole oggi?
Non riesco ad aggiungere nulla. Dall’inizio degli Novanta ad oggi da questo punto di vista sono stati fatti disastri, ma i disastri sul piano della comunicazione e sul piano del veicolo immaginifico sono purtroppo molto antecedenti a questo. Credo si sia cercato in tutti i modi di inoculare una forma di disimpegno, che da un lato è anche comprensibile, perché penso che il periodo del terrorismo abbia fatto danni a tutti i livelli della società. Ha fatto danni perché ha creato miraggi, ha creato finte visioni che non hanno fatto bene a nessuno, ma al tempo stesso hanno reso possibile ciò che è avvenuto immediatamente dopo.
Credo che la mia generazione sia quella che da questo punto di vista abbia pagato il maggior prezzo, perché è quella che ha gustato le ultime propaggini della libertà ad ampio raggio e immediatamente dopo se l’è vista sottrarre. Tutto ciò che fino ad un certo punto era possibile, immaginabile ed eseguibile, la mattina dopo non era più concesso.
La fiducia nel prossimo
Faccio un esempio stupidissimo per quello che è l’esercizio di una forma di immaginario, tu pensa all’autostop. Quando avevo vent’anni tutte le strade, comprese quelle dei paesini di provincia, erano invase da persone che si spostavano in questo modo; oggi potresti rimanere anche giorni per strada senza che qualcuno ti dia un passaggio. E credo che ci sia una ragione: oggi non ci si fida più di nessuno, si vedono nemici ovunque, quindi figurati se tu ti puoi sentire sicuro e rilassato nel concedere passaggi a qualcuno. Sono piccole cose. Io ricordo che quando frequentavo l’accademia, sulla scalinata della stazione di Venezia nei periodi estivi dormivano più di cinquecento persone, oggi ti fanno la multa se ti siedi e semplicemente mangi un panino.
Leggi anche: Something Else – Memorie di fascismi presenti
Libero
Veniamo alla serie di opere collegate al saluto romano. Nel ready-made Libero e nei differenti collage c’è ante litteram il procedimento che sta alla base della scultura L’angolo del saluto? Quale è il significato delle parole ‘prima’ e ‘dopo’ nella copertina di Libero?
Il prima e il dopo
Questa è una bella domanda, quel prima e dopo lì va letto a diversi livelli. Innanzi tutto quando vidi quel libro mi venne in mente subito il lavoro di Penone. Il lavoro di Penone che cerca e trova l’albero dentro la trave e, per disvelarlo, ha bisogno di togliere materia e di arrivare al nervo centrale di ciò che rimane dell’albero. Toglie la materia che nasconde l’albero nella trave. Ora, in questo libro qui quando vidi la copertina, vidi la scultura, perché il braccio teso di Mussolini è il perimetro superiore dell’angolo del saluto, ne è il limite superiore. È curioso che il popolo sia compresso sotto il braccio. Se tu guardi la copertina c’è un brulichio di teste che sono compresse in questo prisma in basso a sinistra del libro e sono compresse proprio nella forma che puoi ricavare tagliando quella copertina.
Aggiungi poi il fatto che, tagliandola, non hai una compattezza bidimensionale, ma hai uno strato di pagine le quali, leggermente aperte, danno origine a quella che poi diventerà la forma della scultura.
Il prima e il dopo ha a che fare anche con storia e contemporaneo. Uso retaggi e icone storiche per poter parlare di contemporaneo. Così come se tu chiedevi negli anni Trenta e negli anni Quaranta se qualcuno era fascista tutti ti avrebbero detto «noi eravamo fascisti!», improvvisamente negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta nessuno lo era mai stato, non c’era più nessuno che poteva confermare questa realtà storica delle cose.
Eppure dagli anni Novanta in poi invece, come la brace sotto la cenere, si è risvegliato un rigurgito. È come se ci fosse stata una realtà sopita. Come una zecca che aspetta che passi un corpo per attaccarvisi: il popolo italiano sembra aver riscoperto l’orgoglio fascista.
Il volume d’aria dell’angolo del saluto
La folla di Libero nelle opere successive viene meno, lasciando un vuoto, che senso ha quel volume?
Prima di tutto quel volume, che diventa poi scultura, per me rappresentava una specie di volume d’aria che si concretizza nell’atto di fare il saluto fascista. Tutte le azioni producono uno spostamento d’aria, e quando l’aria si sposta, gli effetti di questo spostamento tu li vedi non sul punto d’origine dello spostamento, ma li vedi come un’onda d’urto, come una specie di tsunami immateriale e questo scarto per me è alla radice dell’invisibilità delle cose. L’invisibilità di quel gesto sta in quel volume d’aria e in quanto aria (fluido trasparente), ma sta anche nel fatto che quel volume d’aria si sposta in avanti come una prua di una nave, come una lama e tu gli effetti di questo spostamento non li vedi perché li trovi cento metri più avanti.
Fascismi educati
Poi quest’idea dell’invisibilità ha molto a che fare con i neofascismi che non sono più eroici, che non sono più didascalici, che non sono più efficaci. Non rappresentano più le percentuali minime di radicalismi politici che racimolavano fortunatamente un consenso molto limitato nella società. Ma è molto più radicata e condivisa un’idea di fascismo patinato, di fascismo educato, di fascismo perbenista, di fascismo borghese, benestante e, apparentemente, anche benevolo.
È interessante sentire le affermazioni di Lele Mora che, nell’intervista ad un giornalista, si vanta di avere come suoneria telefonica Faccetta nera, oppure di alcune uscite di altri personaggi che sono molto appetibili tra le nuove generazioni e che costituiscono un veicolo immaginifico molto più efficace di qualsiasi testo politico, di qualsiasi didascalia politica e di qualsiasi sigillo ideale di partito. Questo credo sia riconducibile anche a una contemporaneità molto edonista e cinica, Una contemporaneità che sul piano etico non sente più la necessità di prendere parte a qualcosa con il proprio contributo, cioè come dicevo prima, di prendere una posizione là dove non si può più stare zitti.
Uno stampo per compiere un’azione
Quale valore ha l’obliterazione del corpo dalla scultura l’angolo del saluto, e di contrasto, il ridare corpo al saluto attraverso la sua persona nella performance di Rijeka?
Dopo una prima fase comportamentista a partire dagli anni Novanta mi è interessato molto costruire dispositivi che potessero essere utili ad altri, sculture fatte per essere utilizzate, sculture come forme di presa di coscienza. Nell’utilizzo che possiamo fare di queste sculture, mi piace l’idea di sculture che possano essere toccate che possano essere utilizzate. Questa cosa è totalmente in antitesi con l’idea che c’è di opera d’arte nella tradizione occidentale. L’opera è la cosa, è la materia che si consegna e, una volta consegnata, diventa intoccabile in quanto rischi di corrodere la sacralità di quella materia.
Per questa ragione L’angolo del saluto è in opposizione al corpo nel senso che è quasi un stampo per un’azione da compiere, per aver il coraggio di visualizzare il saluto e quindi di farlo. È una scultura pensata per essere utilizzata e che crea una specie di cortocircuito, una forma di contraddizione come fosse un atteggiamento situazionista di detournement, per cui non si capisce più se s’ha da fare oppure no, se cioè l’utilizzo di quella scultura come attrezzo sia edificante dell’azione stessa o detrattiva.
La ricerca del dubbio
Mi interessa molto nei lavori di sancire un plausibile dubbio, un plausibile interrogativo verso la sollevazione del problema e lasciare che sia l’interlocutore a ragionare sul fatto che l’azione possa essere qualcosa o un’altra, mi piace l’idea della contraddizione.
Alla fine degli anni Settanta Gianfranco Sanguinetti in un clima di acuto terrorismo scrisse un testo che si chiamava Del terrorismo e dello Stato. A Venezia per esempio quando si lesse questo libro circolò la notizia che a scriverlo fosse stato un componente della destra eversiva e questo non era assolutamente vero. Ma la nitidezza del testo, l’ambiguità che il testo lasciava, la sua durezza e i discorsi davvero taglienti, ti lasciavano nel dubbio. Per me questa idea del dubbio non è una volontà ‘ponzio-pilatica’, non è la promozione di una forma di assenteismo, ma è l’elemento che potrebbe rompere un’inerzia per cui tu, a un certo punto, devi capire come usare queste cose e devi farlo prendendo coscienza di quello che fai.
Quando esposi questa scultura alla Quadriennale di Roma ci fu anche il tentativo di documentare quasi segretamente l’uso che potenzialmente potevano fare gli spettatori. Dico potenzialmente perché la collocammo quasi furtivamente alla fine di questa sezione curata da Simone Frangi e questa scultura con un collage potevano anche indurre lo spettatore a liberarsi in azioni di qualsiasi tipo. A me sarebbe piaciuto poter documentare questa cosa, quasi come se fosse una scultura catartica, che libera le inibizioni, che ti fa essere ciò che sei.
L’angolo del saluto: una scena pericolosa
La forma verticale e minacciosa della scultura L’angolo del saluto ha alla sua origine riferimenti a strutture come il Panhopticon, a monumenti totemici di un qualche potere religioso o alla rivoluzionaria ghigliottina?
Sul piano archetipico questa forma ha molte eredità. Prima parlavo di un volume d’aria che mostra gli effetti cento metri più avanti, e quindi pensavo alla prua di una nave, di un rompighiaccio. La forma è di eredità futurista, dinamica, tagliente, inossidabile, e qui stiamo parlando della lama; ma dietro la lama c’è poi un mobile baracca, un mobile fatto di un materiale forse tra i più poveri, molto attaccabile (se ci appoggi la mano ci rimane l’impronta), molto vulnerabile, si graffia con un’unghia. Ha una compattezza solamente apparente. Ho detto prima mobile baracca perché mi faceva pensare al carro armato, alla differenza di mezzi che avevamo nella guerra d’Africa, mi faceva pensare all’impossibilità di una cosa, piuttosto che alla possibilità, che alla solidità.
L’idea della composizione mi è venuta in un mercato rionale, un giorno bevendo l’aperitivo ero di fronte ad un banchetto di un venditore che aveva solo calzini, due cavalletti e un piano. Era l’ultimo ad arrivare, facendosi strada tra i furgoni, ed era il primo ad andarsene. Questa cosa mi colpì molto finché non pensai alla composizione di questa scultura. Ha un impianto scenografico molto efficace, ma ha una sostanza molto cedevole. La lama ad esempio è molto tagliente, è acciaio pieno ed è appoggiata al mobile solo attraverso sei calamite, quindi non è in alcun modo assicurata al mobile. Quando tu prima parlavi di ghigliottina inconsapevolmente hai detto bene. Lungi da me creare una situazione di pericolo per gli spettatori, ma l’idea è proprio quella di una lama incombente che in un qualsiasi momento ti può affettare.
Una foto e il suo riflesso: ON / OFF
Nell’istallazione ON/OFF pone uno specchio di fronte una foto stampata al contrario. In questo caso è l’artista a mostrare la verità o deve essere lo spettatore a riconoscere il suo ‘io fascista’ celato dietro l’apparente antifascismo?
Sai è la storia di Narciso, è la storia dell’immagine e dello specchio, del volto e dello specchio. In questo caso però ognuno vede ciò che vuole. Quello che mi eccitava dell’immagine è che anche solo per un secondo tu non sai se quello che tu chiamavi capovolgimento del negativo è una scelta deliberata (e quindi un piccolo gesto rivoluzionario del fotografo) oppure è semplicemente una svista. Il discorso del dubbio mi ricorda l’atteggiamento dei pittori del Cinquecento e del Seicento che facevano piccoli gesti di disobbedienza introducendo nelle opere elementi quasi invisibili e che, se riconoscibili, potevano anche portare a gesti di persecuzione per l’autore.
C’è però un elemento che pochi riescono a riconoscere: sull’estrema destra c’è una figura che si vede solo fino alle spalle, ed è una figura maschile in giacca e pantaloni con la testa coperta da un vaso. È una figura inquietante, è una specie di mostro, di ibrido imprecisato. È quasi una figura di controllore, non si sa bene se sta dietro al vaso, se si veste del vaso. Sembra quasi fosse un animale mitologico un uomo-toro, uomo-cavallo, è una figura comunque molto inquietante, che accompagna questa armata brancaleone di persone che salutano con la sinistra. È una foto che mi fa venire in mente ad esempio Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti.
Il singhiozzo di un oratore
La parola è indirettamente chiamata in causa nelle opere Hiccup e Libero. Innanzitutto, di quale vinile si tratta? e in che relazione è con i discorsi di “prima” e quelli di “dopo”?
È un’edizione degli anni Cinquanta o Sessanta che raccoglie una sezione dei discorsi di Mussolini. Non è un reperto della vera storia fascista, ma della storia immediatamente postuma. Sinceramente quello che mi interessava di questo disco era la sua sacralità, la sua ragione celebrativa. Mi piaceva sfruttarne l’inerzia, ovvero far girare secondo la più banale normalità il vinile sul piatto, sottraendone però uno spicchio, mettendo in evidenza quel famoso volume d’aria, ma questa volta non creandolo, non materializzandolo, bensì sottraendolo. In questo modo viene a crearsi una specie di distonia funzionale per la quale diventa quasi tragicomico l’idea che a un dittatore venga il singhiozzo nel massimo momento aulico della parola, cioè nel momento in cui sta parlando alla folla. Te lo immagini un oratore o un attore classico che subisce l’umiliazione del singhiozzo durante la recitazione?
Questa cosa qua mi faceva ancora una volta sgretolare i contenuti, perché rompe la sacralità della recitazione, la sacralità dell’arte oratoria, in un secondo sdrammatizzi tutto quello che è il pathos che contiene quel discorso.
Ovviamente c’è una cifra ironica e anche questo lo trovo molto collegato al contemporaneo. Collegato cioè ad un’oralità veramente posticcia, a personaggi che oggi si guardano filmati di Mussolini per carpirne i segreti per poter ripercorrere contemporaneamente le funzionalità di quell’oralità lì.
Io penso che qualcuno nel recente passato politico italiano abbia fatto incetta di questo tipo di documentazioni e quando dico qualcuno non è che voglio sottrarmi all’identificazione, ma dico qualcuno perché penso proprio che siano più di uno.
Un discorso autolesionista
La cosa che mi interessava molto era la voce, una specie di simulacro, è come se avessi un fantasma in casa. È un po’ come coloro che non cancellano dalla rubrica del telefono il numero di una persona cara che è morta, averlo lì in rubrica è come se fosse ancora vivo, è come riperpetuare la sua presenza nella quotidianità. Ho scelto anche ovviamente di farlo su un disco che avesse un testo molto efficace come quello delle sanzioni e delle dichiarazioni di guerra. Ci tengo anche a dire un’altra cosa sull’utilizzo di Hiccup: nella dinamica del disco che gira sul piatto, l’azione della puntina è in un certo senso autolesionista, perché a forza di saltare la testina si rompe.
La metafora delle teste rotte ha molto a che fare con il contemporaneo, ha a che fare con teste che sono fisicamente rotte ma ha a che fare con teste che sono metaforicamente rotte, rotte dai contenuti più che dalle contusioni.
Me la performance
Nella performance Me lei tenta di dire una dichiarazione di guerra pronunciata da Mussolini, ci sono dei precedenti perforativi a cui si è ispirato o gli unici riferimenti erano quello storico e quello artistico con la scultura di Bertelli?
In questo lavoro il punto nodale è il “fuori fuoco”. Il discorso parte dal Profilo continuo del duce di Renato Bertelli che tu hai citato e che paradossalmente è un errore sintattico rispetto alla tradizione, tradizione che ha pervaso la formalizzazione dell’ideologia fascista.
Mi incuriosiva che questo ritratto di Mussolini fosse uno di quelli più celebri e ricorrente nelle produzioni artistiche ma che fosse un errore sintattico, un fuori fuoco. Se tu fai una foto fuori fuoco è come se tu avessi fallito un lavoro. Per paradosso in questo caso diventa il valore del lavoro. Come paradossale diventa anche la sottolineatura dello scollamento che c’è tra avanguardia artistica e avanguardia fascista. Il fascismo non si è mai fatto rappresentare dal futurismo, ma il futurismo ha tentato in tutti i modi di poterlo fare.
Quello che ritengo curioso è il fatto che scultura futurista parla totalmente il linguaggio della macchina e non dell’uomo. Questa scultura esiste perché è stato costruito il tornio, altrimenti non sarebbe mai esistita. Al tempo stesso è la non rappresentazione dell’immagine di un dittatore e questa cosa mi interessava perché la non rappresentazione produce anche il non visibile.
E proprio questa invisibilità, questo sottrarsi, per me ha a che fare ancora una volta con il contemporaneo di cui parlavamo prima; un contemporaneo che, se è pericoloso e invisibile, è doppiamente pericoloso e quando te en accorgi è troppo tardi.
E la scritta Me?
La scritta «Me» è invece collegata al fatto che in quel momento vedevo adesioni sperticate ad un nuovo modo di essere di destra. Non so se posso dire ad un nuovo modo di riaffermare il fascismo, perché non penso sia questa cosa qua, ma improvvisamente nessuno si vergognava più di dire «sono di destra», «il fascismo non è stato così negativo come sembrerebbe», «Mussolini non è stato così negativo così come la storia ci ha raccontato finora». Improvvisamente tutti si sono riscoperti fascisti. E infatti dico, così come «una volta eravamo tutti fascisti» è un modo per minimizzare l’auto-responsabilità e la partecipazione alle cose più tragiche di quell’evento storico, allo stesso modo oggi quando accade qualcosa, si minimizza il tutto come se fosse una specie di goliardia. In inglese si dice Juvenile attitude, come fosse un eccesso giovanile.
Giovanni Morbin, Me performance Quindi per me quella «M» che formalmente è mussoliniana, insieme con la «e», diventano pronome personale. Starebbe a dire: «Va bene oggi tutti si riscoprono fascisti, nessuno si vergogna più di dire che qualcuno è fascista».
Per cui all’origine dell’azione c’è questo atteggiamento: «OK! improvvisamente tutti si riscoprono fascisti, ci provo anche io, anche io volevo essere fascista». Lo faccio nel modo in cui lo vedo oggi, nel modo garbato (avevo un bel vestitino Dolce e Gabbana). In questa azione ripeto il tentativo di dichiarare guerra sette volte e ogni volta cado fragorosamente e dolorosamente. Al termine del settimo tentativo esco e scrivo «Me» nel senso che «questo sono io, scusate, ci ho provato ma non riesco, non ce la faccio!».
Me: l’istallazione di Valdagno
Questo «Me» nell’istallazione che feci a Valdagno poi, diventa ancora di più pronome personale. Valdagno è una città per metà costruita tra il 1928 e gli anni successivi. E quella città fu costruita interamente sulla carta da un unico architetto: il Bonfanti.
Un progetto che fu realizzato ad hoc e che doveva essere l’immagine di un fascismo nascente. Io ho vissuto tutto la mia giovinezza a Valdagno e ho trovato i valdagnesi molto diversi da tutti gli altri abitanti della vallata. Questo non si significa che tutti i valdagnesi siano fascisti, non sto dicendo questo, ma credo che un’imprinting di quel tipo di realtà lì, sia rimasto nei cittadini. Valdagno era la città modello italiana, comparsa dall’anonimato nelle prime pagine dell’epoca. Una città che fino agli anni Settanta grazie anche all’opera di Marzotto aveva proposte culturali di primo piano.
Giovanni Morbin, Me Anche il periodo fascista, trasversalmente a tutto ciò che possiamo pensare e dire, ha sempre avuto non dico un elemento giustificativo, ma insieme a tutta la negatività, è emersa anche la positività di un periodo che ha costruito una città. Una città in cui c’erano i primi bagni interni. Una città che aveva una piscina coperta con profondità di sei metri. Una città che aveva uno stadio degno della serie A. Una città che aveva una rete ferroviaria e un’industria fiorente. Una città famiglia, una città industria. Tutto doveva essere nei paraggi una specie di riedizione della città sociale inglese il cui esempio precedente era quello di Aldo Rossi a Schio. Una città che davvero faceva concorrenza a molte realtà urbane.
Quindi quando applicai la «e» accanto alla «M», quell’aggiunta significava per me identificava un inconscio collettivo, una specie di imprinting trans-ideologico, secondo cui un pochino comunque è rimasto negli abitanti di quella realtà passata.
Something Else la performance
Questa scelta di invadere il quotidiano, di cercare lo spettatore nel passante, nel cittadino, nell’osservatore, accomuna questa istallazione di cui abbiamo parlato alla performance Something Else. Quali sono state le reazioni a queste sue azioni?
Per quanto riguarda l’istallazione «Me» la destra valdagnese ha protestato ferocemente con la scusa che quello era un edificio storico che non poteva essere modificato. In entrambi i casi penso che quello che mi interessava fosse quest’aspetto casual, questa forma di detournement ancora una volta. Puoi parlare fino allo sfinimento di certe problematiche, ma se uno non le vuole vedere, se non realizza con la propria testa, tu puoi fare ben poco. Creare delle forme dubitative nelle certezze del contemporaneo, per conto mio, in un mondo in cui sei bombardato di certezze, di immagini e di sollecitazioni ,è molto più efficace che utilizzare strumenti didascalicamente affermativi.
L’insinuazione del dubbio quantomeno ti fa arretrare e ragionare un attimo ed è quello che a me interessava. Poi devo dire che le due cose sono molto diverse.
La prima è più smaccata: è un edificio che non passa inosservato. Una volta che poi uno si accorge di quella nuova presenza, il tam tam popolare fa il resto.
Un’azione di detournement
Something else è più sottile perché non è un’operazione statica. È un’azione diversa dall’istallazione, e ha una cifra ortopedica per cui davvero io avevo un busto fino qua in gesso che sosteneva il braccio. Molti mi guardavano un po’ strano. Molti non capivano cioè, non si sapeva poi fino in fondo se quella cosa era un problema ortopedico o se aveva a che fare con l’eredità storica del luogo. D’altra parte l’utilizzo del titolo appare anche in una canzone dei Sex Pistols, Something else. “E’ qualcos’altro”, ha a che fare ancora una volta con il detournement. Le cose molto spesso non sono quelle che sembrano.
Ma perché Something Else?
Concludiamo appunto con il titolo della mostra: «When it all comes true, man, that’s something else» sono parole della canzone resa nota da Sid Vicious e dai Sex Pistols da cui trae ispirazione per il titolo della mostra, quanto deve a quegli anni?
La mia è la generazione Punk, io nasco con quella realtà lì, io ascoltavo gli Stranglers, i Black Flag i Dead Kennedys. Io nel 1977 avevo vent’anni e i miei modelli son stati per pochissimo tempo i modelli del rock, poi trasformati nei modelli del Punk con tutte le loro contraddizioni.
Se tu guardi gli azionisti viennesi, alcune azioni di Günter Brus, quando si taglia con una lametta indossando una camicia bianca e disegna con il sangue sul bianco della camicia, queste sono azioni che Johnny Rotten faceva sul palco durante i concerti. Non so fino a che punto siano coincidenze, mi piace pensare che non lo siano. Ma ti dico di più, negli anni Ottanta abitavo a Londra e fecero una mostra sul situazionismo in cui si parlava del contributo Sex Pistols all’attività situazionista; vai a vedere quanto consapevolmente o quanto inconsapevolmente. È chiaro che questi appuntamenti storici hanno fortemente segnato anche il mio modo di essere, quest’idea dell’alternatività.
La mia prima mostra dentro al sistema dell’arte è stata fatta nel 2005. Non perché io non avessi avuto precedenti opportunità, ma perché fino a quella data io non ho voluto avere a che fare con i musei, con i curatori, con gli espositori. Questa è anche la ragione per la quale le pubblicazioni sui miei lavori iniziano ad uscire adesso. Quell’assenza dal sistema dell’arte ha a che fare anche con una forma di alternatività di quegli anni lì.
E infine Belvedere: l’altezza e il potere
Un’ultima curiosità: nel 2009 lei realizza Belvedere, nello stesso anno Maurizio Cattelan presenta la sua opera Untitled (testa in uno stivale nero) ci sono riferimenti?
No alcun riferimento. Qualcuno ha visto nella mia opera il tacco maggiorato di Berlusconi e devo dire che ci ho anche pensato, ma se avessi fatto quel lavoro con quell’intento sarebbe diventato didascalico. ‘Sua altezza’: quando parliamo di riferimenti nobiliari facciamo sempre riferimento all’altezza. Se tu pensi ai Watussi in Africa, la tribù è molto famosa per avere altezze medie elevate. Ogni riferimento all’altezza porta con sé un’accezione nobiliare, una cifra che ti toglie dal luogo comune e questo mi interessava.
Alla fine dell’Ottocento nasce il concetto di belvedere. Le persone si recano in alta montagna e arrivati al toppo costruiscono una forma d’impalcatura che eleva di qualche metro la realtà minerale della montagna. Quasi come se quei due o tre metri in più fossero quelli che ti svelano cosa sta dietro l’orizzonte. Eppure non c’è mai fine ad un orizzonte. Questa cosa mi interessava molto perché ha a che fare con il potere, con il potere di stare sopra qualcuno, di essere più alto.
Giovanni Morbin, Belvedere Un artista fluxus ripercorrendo la storia del teatro sostiene che il teatro classico palladiano o dello Scamozzi ricostruisce l’impianto dell’architettura sociale dell’epoca. Qui infatti l’occhio dello spettatore sta sotto, un po’ sopra c’è quello dell’attore, ancora sopra quello del re. La dimensione posturale del teatro ricostruisce quella che è l’architettura sociale. Mi interessava anche perché solleva un problema coreografico. Nella fattispecie è da un po’ che sto costruendo una coreografia della gravità, una danza da fare sui tacchi. Una danza che non è più della leggerezza (sulle punte) ma è della pesantezza e s’ha da fare sui tacchi.
Togliere i piedi dalla polvere
E quindi per me quel tacco è l’elemento che rende nobile ciò che sta sopra, che rende il piede ‘in stallo’. Ad esempio le sculture sacre classiche che riproducevano l’effige della deità avevano forme antropomorfe perché si doveva veicolare l’immagine di un dio e non si poteva fare in forma astratta, ma dando sembianza umana agli déi, tu correvi il rischio di offendere la deità, di renderla troppo materiale.
Ora, elevare, togliere il piede dalla polvere, togliere il piede dalle terra, significava dare loro la nobiltà che richiedevano. Per quanto riguarda la scultura quindi, quel tacco toglie il piede dalla polvere, ma allo stesso tempo (il piede) rimane la cosa più sporca che il corpo ha. Chi è che comprerebbe una scarpa come opera? Chi è che farebbe elegia del piede? Mi interessava in questa come in altre opere l’idea dell’anti-grazioso, dell’anti-grazioso boccioniano, e quindi come diceva Umberto Eco, la bruttezza in arte.